La pandemia da Covid-19 sta mettendo a dura prova la resilienza di interi sistemi economico-sociali a livello globale. Se si escludono i reticenti Turkmenistan e Corea del Nord, tutti gli Stati registrano contagi e decessi da coronavirus. Tante e diverse sono state le misure implementate dai vari Governi, così come numerose sono state le più o meno simboliche cooperazioni internazionali, che hanno tracciato una vera e propria “geopolitica degli aiuti umanitari“. Tra i protagonisti, svetta la Federazione Russa, le cui missioni mediche all’estero hanno fatto più o meno rumore. Dai Balcani agli USA, passando per l’Italia, Mosca ha generosamente dispensato équipes specializzate, ospedali da campo e macchinari, in un delicato gioco delle parti in cui spesso l’UE è figurata come passiva ed immobile. Mentre la costante presenza e solidarietà russa (non sempre disinteressata) detta la proiezione internazionale del Cremlino, numerose incognite e congiunture sfavorevoli minano l’operato zoppicante sul fronte interno.
I primi casi di Covid-19 nella Federazione risalgono al 31 gennaio. Due cittadini cinesi sono risultati positivi nell’Oblast’ di Tjumen e nello Zabajkal’skij Kraj, Estremo Oriente russo, laddove Mosca condivide gran parte del suo confine con la Cina. Altri cittadini russi contraggono il virus all’estero, in Iran, negli Emirati Arabi Uniti, e soprattutto in Italia. Sarà da qui che i contagi si diffonderanno a macchia di leopardo nel territorio della Federazione, particolarmente ad Ovest, a seguito dei numerosi rientri dal Belpaese. Tuttavia, al 1° aprile risultavano solamente 500 casi confermati in tutta la Russia, la maggior parte dei quali a Mosca.
La macchina dei test è stata collaudata e messa in moto già il 24 gennaio, con i primi tamponi raccolti dai laboratori. Oggi circa 200 centri statali sono operativi, affiancati da 22 privati. Il Centro statale di ricerca virologica e biotecnologia VECTOR a Novosibirsk è stato il primo ad elaborare un sistema di verifica dell’infezione, anch’esso accompagnato da critiche sulla sensibilità ed efficacia. Ai primi di maggio, oltre 4 milioni di tamponi sono stati effettuati in tutto il territorio della Federazione.
I sospetti sulla veridicità dei dati, l’efficacia dei tamponi e, soprattutto, le prime misure intraprese dal Governo definiscono una situazione confusionaria, dove le precauzioni, il silenzio e il controllo della situazione si mescolano ambiguamente.
A metà marzo, il governo russo ha dichiarato la disponibilità di oltre 55.000 letti per i casi infettivi, di cui oltre 12.000 unità in terapia intensiva, e 396 osservatori. Le organizzazioni mediche hanno inoltre disposto 40.000 dispositivi per la ventilazione polmonare artificiale, 124 dispositivi per l’ossigenazione extracorporea (ECMO), mentre il Cremlino ha stanziato risorse per l’acquisto aggiuntivo di oltre 500 macchinari. 6.000 medici, quasi 2.000 pneumologi e oltre 18.000 infermieri costituiscono infine il nucleo dell’assistenza medica predisposta al contrasto del Covid-19. Anche i dati sull’effettiva accessibilità e disponibilità di posti letto e strumentazioni varie sono oggetto di discussione, oscillando tra le rassicurazioni governative (oltre 1 milione di posti letto complessivi secondo Rosstat nel 2015) e le criticità evidenziate da istituti medici e associazioni.
Oltre ai contagi, aumenta anche la paura nell’opinione pubblica russa. Secondo l’ultimo sondaggio del Levada-Centr sull’argomento, il 57% degli intervistati si dice spaventato da un’eventuale infezione (+27% rispetto a febbraio). In merito alle misure prese dal Governo, il 30% dei rispondenti le ritiene “inadeguate”; stesse percentuali per quelle decise dai governatori locali. Interessante notare come, secondo il sondaggio, la maggioranza degli insoddisfatti sia residente nelle città con più 500.000 abitanti.
Con oltre 165.000 casi raggiunti e il secondo posto al mondo per numero di nuovi contagi giornalieri dopo gli USA [6 maggio 2020, N.d.A.], è evidente come le misure preventivate siano in deciso affanno. Già ai primi di marzo il sindaco di Mosca, Sergej Sobjanin, ha lanciato sibillini allarmi sulla preparazione effettiva del Paese per contrastare la minaccia pandemica. Nuovi ospedali sono stati attrezzati e costruiti appositamente alle porte di Mosca nell’arco di un mese, necessari a sopperire la crescente carenza di posti letto. Sempre Sobjanin, apparso come il più decisionista tra le figure istituzionali russe, ha annunciato un “regime di allerta” già il 6 marzo ordinando a stretto giro l’autoisolamento per i cittadini russi rientrati da zone rosse estere, vietando eventi di massa a Mosca e chiudendo le scuole inizialmente per tre settimane. Ricompense promesse agli anziani osservanti le restrizioni (4.000 rubli, circa 50€) e agli ospedali moscoviti (fino a 200.000 rubli, circa 2.500€, dal fondo di assicurazione sanitaria della città) per ogni paziente affetto da coronavirus, chiusure di attività e servizi non essenziali e incoraggiamento del telelavoro coronano la corsa ai ripari del sindaco della capitale.
La reazione di Sobjanin riflette due risvolti che il Covid-19 sta mettendo in luce. In primis, come logicamente attendibile, la diseguale distribuzione dei contagi, particolarmente concentrata nelle aree densamente abitate della Russia europea. Mosca e il suo Oblast’ registrano oltre 100,000 casi, circa il 60% dei totali, seguiti da San Pietroburgo (quasi 6,000) e Nižnij Novgorod (3.300) [6 maggio 2020, N.d.A.]. Tuttavia, interessanti sviluppi si prospettano in molte regioni periferiche, insolitamente più colpite rispetto alla media degli altri territori. Tra questi, destano attenzione i casi dell’artico Oblast’ di Murmansk (+2,000), così come del Dagestan, confinante con i particolarmente afflitti distretti azeri di Qusar e Xaçmaz, dell’Inguscezia e dell’Ossezia del Nord. Territori remoti ed economicamente depressi, la cui perifericità può testimoniare sia l’iniqua distribuzione di mezzi e risorse, con le conseguenti carenze sociosanitarie, sia la discutibile reperibilità dei dati. A quest’ultime si aggiungono altre “repubbliche etniche“, come il Tatarstan, i Komi, il Baškortostan, l’Udmurtija e il remoto Circondario autonomo dei Jamalo-Nenec, che a loro volta registrano numeri piuttosto elevati. A questi dati potrebbero concorrere la maggiore autonomia di queste entità, non direttamente traducibile in maggiore efficienza, nonché elementi culturali legati all’aspetto minoritario e circoscritto di questi popoli.
Ed è proprio in un contesto di maggiore contenimento e sorveglianza come questo che le manovre “autonome” di Sobjanin e i trend dei contagi visti sopra evidenziano un altro aspetto, in controtendenza con l’accentramento dei poteri che il momento storico richiederebbe: la regionalizzazione della reazione alla pandemia. Con un approccio moderatamente cauto e misure piuttosto inefficaci, fiaccato anche dalla crisi petrolifera e dalle conseguenti ricadute economico-finanziarie, il Governo russo sembra cedere volentieri il passo alle entità federali. E così come il sindaco di Mosca, anche i governatori degli Oblast’ di Murmansk e Tula, e i presidenti di alcune “repubbliche etniche” sopracitate e di Sacha-Jacuzia sono stati tra i primi ad implementare lo stato di “maggiore allerta”, in accordo con la legge federale №68-FZ «Sulla protezione della popolazione e dei territori dalle emergenze naturali e provocate dall’uomo». Le autorità locali hanno quindi introdotto restrizioni e misure aggiuntive a livello distrettuale e interregionale. Laddove il Presidente e il Governo latitano nelle loro decisioni e rimandano costantemente la dichiarazione dello “stato di emergenza nazionale”, le autorità regionali tentano di assumere la guida, talvolta scavalcando la gerarchia delle fonti (le leggi federali hanno sempre la precedenza). Infine, il “centro” che assorbe e gestisce risorse e gettito fiscale sembra incapace di contrastare adeguatamente la propagazione del virus, demandando più o meno tacitamente il suo ruolo alle istituzioni locali. Quest’ultime, soprattutto le più periferiche, sono da decenni sofferenti per le crescenti diseguaglianze economiche, sociali ed amministrative, che il Cremlino non ha ancora saputo (o voluto) riformare.