Cresce o quasi l’immagine internazionale di Putin mentre si deteriora quella interna. Il paradosso è spiegato dalla differente attenzione, e risorse, impiegate nei due scacchieri in cui il presidente si gioca l’eredità.
Non è una novità: il presidente russo ama curare la politica estera del suo Paese, piuttosto che occuparsi dei delicati equilibri interni.
Del resto, poter affidare a un proprio luogotenente la gestione della politica federale consente almeno due grandi vantaggi: dare maggior smalto alle relazioni internazionali, essenziali per una grande potenza come la Russia, ma soprattutto avere a disposizione un parafulmine per tutte le lamentele (provenienti dai governatori regionali o dai semplici cittadini) contro le ristrettezze economiche e le inefficienze amministrative.
Un ingrato compito affidato per lunghi anni a Medvedev, oggi a Mišustin. E agevolato da un vecchio modo di pensare, risalente all’epoca imperiale: se qualcosa non va la colpa non può essere dello zar – sempre in grazia di Dio – bensì dei suoi sottoposti, vicini o lontani che siano. Dunque ministri o corpi intermedi (che non a caso, non hanno quasi mai inciso profondamente nella storia russa).
Tuttavia, questa divisione tra l’ordinarietà dell’amministrazione interna e la straordinarietà della geopolitica negli ultimi anni si è trasformata in un solco sempre più profondo, anche nei rispettivi risultati politici. Ciò che da tempo gli analisti notano è sempre più evidente pure al comune cittadino russo: alla brillantezza della strategia (o meglio tattica, anche se il dibattito è aperto) internazionale di Mosca non corrisponde un simile rendimento sul fronte interno.
In tempi di coronavirus, la contraddizione è più evidente che mai. La Russia non è certo l’unico Paese ad esser stato preso in contropiede dalla pandemia. Anzi, è da notare come il ritardo nella diffusione del contagio sia stato probabilmente aiutato dalla tempestiva decisione governativa di chiudere i confini con la Cina, oltre che dal relativo isolamento internazionale della Federazione. Quanto alla strategia della minimizzazione del pericolo, poi, è stata comune pure alle altre grandi potenze, Cina e Usa – e in misura diversa India, Brasile, Regno Unito e Germania.
La diffusione relativamente scarsa del virus nella Federazione ha incoraggiato le autorità a mantenere tutte le attività aperte anche nel mese di marzo inoltrato, ovvero negli stessi giorni in cui l’Europa andava incontro a restrizioni sempre più drastiche. Parallelamente, il Cremlino ha scorto la possibilità di sfruttare le circostanze mostrando al mondo la grandezza (d’animo) della Russia, attraverso l’invio di attrezzature e operatori medici per il contrasto al virus. Un’occasione irripetibile: con pressoché tutti i Paesi del globo coinvolti nella pandemia, Mosca ha avuto carta totalmente bianca nello scegliere secondo i propri criteri strategici quelli che avrebbero ricevuto i suoi aiuti.
E così, oltre ai suoi vicini e a una manciata di alleati (tra cui la Serbia e il Venezuela), nella lista dei destinatari sono stati inclusi due soggetti altamente “simbolici”: gli Stati Uniti e l’Italia. I primi hanno ricevuto un numero relativamente ridotto di aiuti, soprattutto in proporzione alle capacità produttive e al materiale di cui già disponevano. La mossa ha avuto un significato prettamente politico, una mano tesa nel cuore di una guerra fredda e di propaganda che in realtà non ha accennato a ridursi nemmeno a fronte di un’emergenza globale. Difficile che il gesto sposti qualcosa nelle equazioni strategiche di Washington.
In questo senso, e al di là di qualsiasi attestazione di sincera solidarietà, l’Italia è stata vista subito come una “preda” molto più facile. Nel Belpaese, infatti, la carenza di cultura strategica si è saldata con la delusione verso i tradizionali partner continentali. E soprattutto, l’assenza di una forte russofobia nell’opinione pubblica – a differenza dei sentimenti diffusi in America e in buona parte d’Europa – ha fatto sì che anche un carico relativamente contenuto di aiuti riuscisse a spostare gli umori di una discreta fetta di popolazione. Almeno stando ai primi sondaggi (SWG), secondo i quali la reputazione della Russia sarebbe cresciuta del 17% rispetto all’anno scorso. Naturalmente avrà contribuito anche la messa a punto di una studiata coreografia, ma a fare la differenza è stato senz’altro il terreno fertile di partenza. “Dalla Russia con amore” verrà iscritta negli annali come un indubbio successo d’immagine.
Alla brillantezza della strategia (o meglio tattica) internazionale di Mosca non corrisponde un simile rendimento sul fronte interno
Cupcake Ipsum, 2015
La pensano allo stesso modo, i cittadini russi? Tralasciando le sparute voci contrarie all’inizio dell’operazione, motivate da ragioni di opportunità politica (cioè il fatto che si stesse aiutando un Paese partecipante al circo delle sanzioni) ma abbondantemente compensate dalla generale simpatia dei russi verso l’Italia, i dubbi sono cresciuti nelle settimane successive. Ovvero quando l’accelerazione dei contagi in patria, e in particolare l’evidente difficoltà governativa nel contrastarli, ha reso sempre più impopolare qualsiasi “spreco” di risorse all’estero.
Beninteso, una tendenza all’isolazionismo presente ovunque: non a caso le operazioni di solidarietà internazionale si sono andate via via riducendo nel mese di aprile, durissimo quasi per tutti. Ma in Russia l’insofferenza per la situazione generale è andata crescendo, di pari passo con l’esplosione dei contagi (oggi ormai quasi a quota 200mila, numeri che fanno rientrare la Federazione nel poco ambito “G7” dei Paesi più colpiti). I sondaggi registrano una tendenza netta: la popolarità presidenziale diminuisce, anziché rafforzarsi. Ed è un dato interessante perché in controtendenza non solo con ciò che sta avvenendo in Europa, ma anche con la stessa storia recente russa.
Il virus arriva da “fuori”, ma non è utilizzabile per la propaganda come se fosse una normale minaccia esterna, a cui i russi solitamente sanno rispondere con un maggior attaccamento verso la patria e il proprio leader. Lungi da Putin accusare Pechino come sta facendo Trump. In assenza di capri espiatori, e soprattutto di fronte a uno scenario europeo che poteva essere studiato e preso a modello già a metà marzo, le carenze russe hanno tutt’altro sapore. E stavolta la colpa non può essere data solo alla mediocrità del governo o degli amministratori locali.
Naturalmente Putin ha provato a correre ai ripari. Dando più peso gestionale a Sergej Sobjanin, il sindaco di Mosca che fin dall’inizio dell’emergenza si è più esposto nella pretesa di misure di contenimento restrittive, anche a costo di sconfessare le disposizioni dei vertici governativi. Delegando parte delle responsabilità alle entità federali, vista anche la disparità delle situazioni locali. Aprendo i rubinetti del fondo sovrano russo, anche se non del tutto e non subito. E infine appellandosi ai cittadini, come nelle ore più buie.
I toni del discorso del 28 aprile sono indicativi. Putin non rinuncia ad attaccare (pur se in modo indiretto) una certa via del liberismo occidentale, completando così la critica ideologica avviata lo scorso giugno nell’ormai famigerata intervista al Financial Times: la fretta di ripartire è inumana, come la legge del più forte. La Russia descritta dalle sue parole è diversa. Un Paese pronto a sostenere i più deboli, a non sacrificarli sull’altare dell’economia.
Tra le parole e le azioni, tuttavia, permane ancora un solco. Molto simile a quello tra le due immagini – interna ed internazionale – del presidente. I russi non si sentono protetti. Soprattutto i lavoratori del settore privato, cioè quelli più soggetti ai licenziamenti e alla volatilità dei redditi. Il risparmio privato per il 60% dei cittadini semplicemente non esiste. I gioielli di famiglia del Cremlino, a mali estremi, verranno venduti – ma per salvare lo Stato prima della sua classe media metropolitana.
Irrealistico credere che tutto ciò non abbia dei contraccolpi sul futuro di un presidente così longevo. Il referendum costituzionale programmato per il prolungamento del suo potere, e rinviato proprio a causa del virus, sarà probabilmente vinto da Putin. Ma la strada verso una sua reale ricandidatura si fa sempre più impervia.