Un fiume carsico. Così potremmo immaginare il processo di individuazione, selezione e affermazione del presidente della Federazione Russa. Un processo gestito rigorosamente dall’alto. Anzi “dal basso”, nelle viscere del Cremlino, nel sottobosco dei poteri. A un certo punto del suo corso, infatti, il fiume scompare alla vista di tutti – soprattutto dei media, che oggi considerano erroneamente archiviata la pratica della successione di Putin. Ma non smette certo di scorrere. Quando il momento sarà maturo, il fiume tornerà a manifestarsi alla luce del sole. Ma accadrà a pochi metri (mesi?) dalla sua foce, ovvero dall’investitura formale del Cremlino.
Fuor di metafora, occorre subito chiarire un punto. Il referendum costituzionale conclusosi l’1 luglio scorso chiude l’iter “giuridico” della successione al potere di Putin. Non certo il suo percorso politico. Che da oggi continua sottotraccia e anzi, semmai, si rinvigorisce.
Lontano dai riflettori mediatici può infatti andare in scena la vera, aspra lotta per il potere – che in Russia non si è mai giocata nelle urne, né tantomeno tra maggioranza di governo e opposizione. Uno scontro invisibile ma non per questo meno duro. In campo i fedelissimi dello zar, i siloviki, i militari, gli oligarchi, persino le nuove leve di giovani amministratori che rivendicano qualcosa in funzione più generazionale che politica. Tutti gli altri non solo non possono partecipare, ma nemmeno assistere. La gara si gioca a porte chiuse, come si conviene in tempi di Covid-19.
Il referendum costituzionale conclusosi l’1 luglio scorso chiude l’iter “giuridico” della successione al potere di Putin. Non certo il suo percorso politico.
Cupcake Ipsum, 2015
Le domande ora sono due: chi e quando.
Tutti i segnali sembrano indicare che la scelta del “delfino” non sia ancora avvenuta. A meno di vedere in quel Mišustin, primo ministro succeduto a Medvedev lo scorso gennaio, l’improbabile erede del quarto di secolo putiniano. Lo stesso Medvedev sembra ormai fuori dai giochi: la sua chance se l’è giocata nel quadriennio 2008-2012, non fortunatissimo a dire il vero. Poi c’è Šojgu: il ministro della Difesa potrebbe guidare l’ala più reazionaria dell’establishment, i falchi poco inclini a concessioni verso l’Occidente. E da ultimo potrebbe essersi inserito Sobjanin, il sindaco di Mosca che ha gestito con un certo successo le prime fasi dell’attuale pandemia.
Le voci si rincorrono e continueranno a farlo fino all’investitura ufficiale. Che con ogni probabilità avverrà ben prima del fatidico 2036, l’ultimo anno in cui Putin potrà restare legalmente al potere (a meno di ulteriori emendamenti costituzionali). Sono tanti infatti i segnali di deterioramento del consenso per il presidente, che per due decenni si è tenuto in piedi in modo quasi granitico ma sta vedendo scivolar via i presupposti favorevoli al suo mantenimento. Difficile pensare che l’attuale inquilino del Cremlino possa riconfermarsi altre due volte e senza ostacoli.
Di fronte a tante incertezze, è lecito dunque chiedersi a cosa sia servito il referendum del 1° luglio. La “votazione nazionale eccezionale” (così l’ha chiamata Ella Pamfilova, presidente della Commissione elettorale centrale, per rimarcarne le differenze procedurali rispetto alle tornate più “ufficiali” e meno soggette a distorsioni e brogli) ha infatti confermato con il 78% delle preferenze gli emendamenti costituzionali già approvati dalla Duma lo scorso inverno (nella tabella qui sotto, le modifiche degli assetti istituzionali previste dalla riforma).
Nelle parole dello stesso Putin, che non ha ancora espresso ufficialmente la volontà di ricandidarsi, la riforma è il presupposto per la stabilità del sistema politico russo, al di là di chi vi detiene temporaneamente il potere. Su questo punto occorre infatti sgombrare ulteriormente il campo da supposizioni e letture deviate dalla prospettiva occidentale degli eventi: il prolungamento del potere presidenziale di Putin non deriva tanto dalle brame di dominio di quest’ultimo, bensì dalla paura dell’instabilità, il peggior nemico del mondo post sovietico. Questa potrebbe manifestarsi con una transizione “non ordinata” (dall’alto, si intende) del potere, ovvero con una competizione elettorale soggetta a interferenze mediatiche o peggio ancora esterne. La Russia non è ancora pronta per la democrazia, almeno intesa nel suo senso europeo.
Il referendum è stato al contempo uno sfoggio di legittimazione popolare, forse l’ultimo – necessario per scacciare i demoni di un consenso realmente in caduta – e una rassicurazione per i poteri di uno Stato non ancora pronto ad assumersi i rischi di un’incerta leadership. Se le cose dovessero andare male – in altre parole, se il sistema dovesse dimostrarsi davvero incapace di rinnovarsi, anche coi propri stessi uomini – resterà sempre in campo l’opzione Putin. Ancora di salvezza per qualcuno, ricatto per qualcun altro, il presidente in carica sembra ormai il jolly di una matassa di interessi contrastanti e inestricabili. Ma dal 2024 in poi, sarà una carta sempre più difficile da giocare. E dal sapore sempre più simile a quello di un’extrema ratio.