«[Costantinopoli è stata] in cima alle aspirazioni del popolo russo fin dall’origine del nostro Stato, l’ideale del nostro illuminismo; la gloria, lo splendore e la grandezza dei nostri antenati, il centro della fede ortodossa, e il pomo della discordia fra l’Europa e noi. Che significato storico avrebbe avuto per noi Costantinopoli se fossimo riusciti a strapparla ai turchi indipendentemente dall’Europa! Che gioia sarebbe venuta ai nostri cuori dal fulgore della croce che avremmo innalzato sulla cattedrale di Santa Sofia! Si aggiungano a ciò tutti gli altri vantaggi di Costantinopoli […] la sua importanza mondiale, la sua rilevanza commerciale, la sua mirabile posizione e tutte le attrattive del Sud».
Così si esprime l’intellettuale panslavista russo Nikolaj Danilevskij, nell’Ottocento, a proposito della capitale degli ottomani, “usurpata” ai bizantini quattro secoli prima. Per riprenderla, e al tempo stesso guadagnare il Mediterraneo, i russi combattono tante guerre contro i loro vicini meridionali. In nome degli zar e naturalmente di Dio.
Da allora è passata tantissima acqua sotto i ponti sul Bosforo. All’inizio dello scorso secolo gli zar e i sultani sono cacciati, i loro imperi crollati, e le rispettive capitali marittime (San Pietroburgo e appunto Costantinopoli) cambiano nome e perdono il proprio status in favore delle metropoli di terraferma. Soprattutto, le mire russe sul Bosforo cessano, o almeno cambiano completamente forma. L’avvento del bolscevismo rigetta inizialmente i metodi dell’imperialismo zarista e gli obiettivi della Grande guerra, tra cui il possesso degli Stretti turchi. E toglie ogni fondamento ideologico all’antica ambizione ortodossa di mettere i piedi dentro Santa Sofia, per riportarla agli antichi fasti bizantini. La conversione di quest’ultima in museo (1934), per volere di un Atatürk negli ultimi suoi anni di vita, completa infine la “desacralizzazione” di una simile missione. Istanbul non è più la Seconda Roma, ma la seconda capitale (informale) della Repubblica di Turchia, che si professa laica. E resta rilevante quasi solo per la sua posizione strategica tra il Mar Nero e il Mediterraneo: le idee passano, la geografia rimane.
Trascorrono ancora molti anni, così tanti da rendere sbiadite le reminiscenze delle vecchie guerre russo-ottomane. Eppure, caduto il comunismo, la Russia va in cerca di altre chiese per cementare la propria comunità (pluri)nazionale. Trova presto quella ortodossa, che non solo fornisce agli eredi dell’Urss qualcosa di nuovo in cui credere, ma permette pure di estendere al di là dei ristretti confini della Federazione Russa i tentacoli di una nuova influenza. La vecchia Costantinopoli, in quanto sede patriarcale, torna ad avere un posto speciale nel cuore di molti russi.
Ma un altro credo si fa presto strada, fino a sovrastare tutto il resto: quello nello Stato. Le umiliazioni subite negli anni Novanta convincono i russi della necessità di averne uno forte e autosufficiente. E soprattutto, libero da ingerenze esterne. Si forma così, molto prima che in Europa, il sovranismo russo. Dapprima sotto l’ambigua classificazione di “democrazia sovrana”, un ibrido volto a non strappare del tutto i legami politici con l’Occidente. Poi scevro da ogni etichetta nominale. Un’ideologia nei fatti non sempre rispettata, almeno per ciò che riguarda i vicini, ma ininterrottamente predicata. Con l’effetto di dare un’impronta riconoscibile al ritorno sulla scena globale della Russia di Putin.
Nel suo nome, anche se con ben altri obiettivi, Mosca scende in campo in Siria, appoggia il Venezuela di Maduro, stringe rapporti assidui con la Cina – portatrice di valori non dissimili. Insomma, conduce una guerra contro l’Occidente con altri mezzi. Parola d’ordine, sovranità: nessuno deve rovesciare governi – o anche solo ingerire negli affari interni altrui – con il pretesto più o meno fondato del rispetto dei diritti umani o della democrazia. Pena le rivoluzioni colorate, o le primavere arabe. Ovvero il caos.
Arriviamo così al presente e alla scelta – apparentemente sofferta – di far prevalere il principio di non ingerenza negli affari interni di altri Paesi sull’affermazione dell’identità cristiano-ortodossa. Su cui la Russia sta pure puntando molto del suo capitale politico, a partire dal rinnovo della propria Costituzione che adesso menziona pure Dio[1].
A Santa Sofia, per Putin, si consuma uno scontro di ideologie più che di civiltà. Mentre un Occidente disorientato cade nella trappola di Erdoğan, leggendo gli eventi in ottica quasi solo religiosa, la Russia va oltre e porta tutto (anche) su un altro piano. Almeno nelle reazioni della sua leadership politica, attenta a dosare perplessità e rispetto verso la scelta del presidente turco. Qualcosa che “turba i cristiani russi” ma resta sempre nel campo degli affari interni del vicino.
Una prudenza non rispecchiata dalla voce del patriarca ortodosso Kirill, secondo il quale la conversione di Santa Sofia costituisce “una minaccia per la civilizzazione cristiana” e una violazione della libertà religiosa accolta dal popolo russo con “indignazione e amarezza”. Ma mai come oggi la Chiesa ortodossa russa è un contorno della politica del Cremlino, quasi una sua nota di colore. Nonostante gli ammiccamenti costituzionali e il formale rispetto tributatole, le decisioni si prendono in altre stanze. Specie per quel che riguarda la politica estera.
La decisione di Putin di “piegarsi” alla volontà del nuovo sultano può apparire controproducente. E in effetti il rischio di apparire debole e impotente dinnanzi agli eventi è reale, così come la delusione di chi vede ancora la Russia come l’ultimo baluardo di una cristianità non corrotta. Ma appare trascurabile di fronte al pericolo opposto, quello di uno scontro retorico di civiltà dai contorni nebulosi e certamente deleteri.
Mosca non può ancora rinunciare alla sua strana alleanza con la Turchia, né minare le basi dei suoi disegni mediorientali (per i quali appellarsi alle tradizioni può essere utile, ma fomentare le distinzioni culturali e religiose col mondo islamico certamente no). E naturalmente non può ignorare il proprio fronte interno, dove venti milioni di musulmani non apprezzerebbero certo una scelta di campo di confessionale su uno dei simboli più contesi del pianeta.
Tra i due mali, la perdita della “neutralità” di Santa Sofia rappresenta per Putin quello minore.
[1] Per quanto la menzione non sia vincolata all’appartenenza confessionale, è chiaro che “la fede in Dio trasmessa dagli avi al popolo russo” si riferisce soprattutto alle tradizioni cristiano-ortodosse del Paese. E per la stessa ragione è stata fortemente voluta dalle autorità ecclesiastiche del patriarcato di Mosca.