L’accerchiamento USA e, in prospettiva, cinese agitano i sogni di Mosca. Il retrenchment statunitense e l’attivismo di Pechino impongono al Giappone di uscire dal guscio. Una strana alleanza è alle porte.
La cesura storica da cui iniziare la lettura dei rapporti russo-giapponesi contemporanei è senza dubbio la conclusione del secondo conflitto mondiale.
Nel cinquantennio precedente l’evoluzione dei rispettivi imperialismi aveva portato a diversi momenti di scontro (le battaglie di Tsushima e di Khalkhin Gol) e fasi molto critiche (penetrazione militare nipponica fino al Lago Bajkal durante la guerra civile tra Bianchi e Rossi), di cui l’occupazione sovietica delle Isole Curili (Territori Settentrionali per i giapponesi) rappresenta l’ultimo atto.
La cristallizzazione geopolitica della Guerra fredda non ha impedito ai due Paesi di utilizzare la vexata quæstio delle Curili e del trattato di pace, mai firmato, per diverse finalità. Il Giappone esclusivamente per motivi di prestigio nazionale, non avendo un interscambio economico con i sovietici tale da poter essere usato come leva diplomatica. Mosca, invece, per la quale Tokyo rappresentava il secondo partner commerciale non-socialista (dietro la Germania Ovest), solleticava le rivendicazioni nipponiche in cambio di un disallineamento dal fronte Usa, in generale, e dalla politica del ping-pong nixoniana, in particolare, di cui l’appeasament nippo-cinese del 1978 fu l’evoluzione naturale.
Due economie di per sé complementari: esportatore netto di materie prime la Russia, importatore netto il Sol Levante. Grazie ad élites aduse al perseguimento di un forte interesse nazionale con ottica pluridecennale, le ragioni geopolitiche hanno sempre indirizzato quelle economiche e mai il contrario. Anche oggi tale dinamica governa le relazioni tra i due Stati, ma con esiti diversi.
Dopo la pausa degli anni ’90, “Matuška Rossija” sta rivivendo una sindrome da accerchiamento di cui gli artefici non sono (di nuovo) solo gli USA (avanzata NATO nell’ex near abroad: Est Europa – il cosiddetto Trimarium -, Caucaso azero e Centro Asia) ma anche la Cina di Xi: la BRI, nelle varianti centroasiatiche e polari è vista come una flessuosa rete, dapprima commerciale, nelle cui maglie l’orso russo teme di rimanere imbrigliato nel lungo periodo.
La questione della Crimea del 2014 ha esteso la pressione sulla Russia a livello economico, mediante sanzioni. Un po’ troppo per un Paese che ha sempre patito un’atavica incapacità di accrescere la propria ricchezza. Così, le difficoltà incontrate nell’ostruzionismo energetico dei Paesi est-europei filo-statunitensi hanno spinto Mosca ad accelerare la diversificazione energetica verso i voraci sbocchi asiatici.
Da qui l’alleanza tattica sull’energia russo-cinese, con contratti di approvvigionamento trentennali e infrastrutture finanziariamente e industrialmente impegnative (“i tubi non si spostano” – n.d.A.) i quali impongono che insieme al gas fluiscano copiosamente anche delle buone relazioni di vicinato. Purtuttavia, l’eventualità di rimanere schiacciati dalla preponderante mole cinese muove Mosca nel cercare in Tokyo un controbilanciamento a Pechino. Sol Levante che, agli occhi dei russi, si avvia ad essere un potenziale ventre molle dell’Alleanza Atlantica.
Il Giappone, dal canto suo, vive con apprensione la crescente instabilità alla sicurezza nella regione (Corea del Nord mina vagante nucleare; presa cinese di Taiwan non questione di sé ma di quando; approssimarsi del confronto sino-americano nel cui mezzo, geograficamente, Tokyo si trova) e le incognite energetiche (riduzione del nucleare dopo Fukushima; instabilità potenziale dei fondamentali approvvigionamenti fuel da Hormuz).
La politica Global Japan di Shinzo Abe cerca di rispondere a tali sfide: investire nell’Artico russo e riavviare seriamente il negoziato con Putin sulle isole contese è un modo per dividere Cina e Russia trattandole separatamente, anziché come nemiche, e per evitare che l’Orso abbia come unico partner industriale orientale il Dragone. Inoltre, la diversificazione dei fornitori è nell’agenda energetica di Tokyo: aumentare la quota russa sarebbe importante, tanto più che il chokepoint di Bering è l’unico non controllato solo da Washington ma in condominio proprio con Mosca.
Nel dettaglio, gli USA hanno ostacolato gli investimenti giapponesi negli impianti di Sakhalin, bloccando l’intesa del 2016 tra la russa Rosneft e la JOMEC (Japan Oil Gas & Metal Nat. Corp.), perché contrari al regime sanzionatorio post Crimea. Ma la crisi di Hormuz ha imposto un’accelerazione al programma di partenariato. Così Tokyo è oggi presente nel sito di Sakhalin-1 con SODECO, joint-venture privato-governativa, e in Sakhalin-2 con Mitsui & Co. e Mitsubishi Corp.
Nel settembre 2019 viene siglato un memorandum sull’exploiting e sul comparto petrolchimico siglato tra Rosneft e l’Agenzia giapponese per le Risorse Naturali e l’Energia. Senza contare che la tratta orientale del nuovissimo gasdotto russo-cinese “Power of Siberia“, la Sakhalin-Khabarovsk-Vladivostok, potrebbe rivelarsi utile per i trasferimenti di gas naturale liquefatto verso l’arcipelago.
Sempre nel 2019, nella penisola di Gydan, una quota del 10% del progetto Arctic LNG2 di Novatek, maggiore società gasifera privata russa, viene esteso al consorzio Japan Arctic LNG, costituito dalle già citate Mitsui & Co (25%) e JOMEC (75%), dopo ben tre anni di trattative. La particolarità è che tra i soci figurano società statali cinesi (la Cina è già presente nel vicino Yamal LNG) inaugurando un’inedita collaborazione industriale sino-giapponese.
La politica Global Japan di Shinzo Abe cerca di rispondere a tali sfide: investire nell’Artico russo e riavviare seriamente il negoziato con Putin sulle isole contese è un modo per dividere Cina e Russia trattandole separatamente, anziché come nemiche, e per evitare che l’Orso abbia come unico partner industriale orientale il Dragone.
Cupcake Ipsum, 2015
La Russia rappresenta per il Giappone anche un’importante opportunità in un settore che nel tempo peserà sempre di più: gli elementi delle Terre Rare (R.E.E.). Da questi dipendono parti integranti chiave delle moderne tecnologie civili (energie rinnovabili, cellulari, touch screen e così via) e militari (componentistica per motori a reazione, sistemi di guida missilistica e di difesa antimissile, satelliti e comunicazioni).
Ormai imprescindibili, devono il nome non alla scarsità (al contrario sono molto diffusi nella litosfera) ma alla difficoltà di trovarli in una concentrazione tale da permetterne l’economicità estrattiva (i R.E.E. non si trovano “puri” in natura ma solo come cationi legati a elementi non metallici in una varietà di minerali, da cui vanno separate).
Bastando poche tonnellate per soddisfare la domanda mondiale, poche sono le miniere dedicate. Quasi tutte in Cina, unico Paese, inoltre, ad averne sviluppato la più completa tecnologia di trasformazione. Ciò ne fa un’arma di pressione politica da parte di Pechino (come nell’attuale guerra fredda con gli USA sul 5G), cosa che proprio Tokyo appurò a sue spese nel 2010, allorché, in una delle periodiche scaramucce sulle contese isole Senkaku, la Cina ne interruppe le esportazioni verso il Paese del Crisantemo, portandolo a più miti consigli.
In una supplychain così strategica e critica, perché facilmente interrompibile, il Giappone ha varie alternative (Australia, Vietnam, Malesia) e il recente annuncio di Putin di un piano di sfruttamento dell’Artico aperto a “partenariati stabili e reciprocamente vantaggiosi” (facendo seguito alla recente legislazione in materia di esenzioni fiscali per gli investitori nella regione) apre l’accesso ai depositi del massiccio alcalino di Lovozero nella penisola di Kola. Qui, i REE vengono estratti dai minerali della loparite (niobio) e della eudialyte (disprosio). Un’occasione per il Sol Levante di diversificare nelle Terre Rare, coltivando in contemporanea la relazione economica con la Russia.
Marco Leone