Per gli occhi meno attenti sarebbero state elezioni come le altre. Ovvero il solito plebiscito che avrebbe assegnato a Lukashenko una maggioranza bulgara (anzi, aggiornando il registro, bielorussa) per il suo sesto mandato presidenziale. Ma i più avveduti avevano già individuato, a Minsk e dintorni, degli scricchiolii inediti. Preludio di un’estate scottante, forse la più calda della breve storia della Bielorussia indipendente.
Le manifestazioni contro il presidente al potere dal 1994 iniziano infatti ben prima della tornata elettorale del 9 agosto, trovando ragione nella pessima (anzi, in buona parte proprio mancata) gestione dell’emergenza da Covid-19. L’arresto di Sergej Leonidovič Tikhanovskij, leader del partito “Paese per la vita”, e quello dell’oppositore Viktar Babaryka – entrambi intenzionati a candidarsi per le elezioni – rappresenta una svolta per i movimenti di protesta, che da quel momento moltiplicano le rivendicazioni verso il potere. La candidatura alternativa della moglie di Tikhanovskij, Svetlana, e soprattutto i sondaggi che iniziano a circolare nei mesi estivi, preoccupano seriamente l’establishment. Come si evince dal mancato invito degli osservatori OSCE (non accadeva dal 2001) e dalla crescente paranoia rivolta persino ai propri alleati (la Russia, accusata di voler destabilizzare il Paese tramite l’invio di 33 presunti mercenari del Gruppo Wagner).
Alla fine, alle elezioni del 9 agosto il tanto atteso plebiscito in favore di Lukashenko avviene. Ma mai come stavolta i dati (80% in favore dell’eterno leader) appaiono falsati. A certificarlo, più dei sospetti internazionali e delle voci che corrono nelle ore successive alla chiusura delle urne (a proposito di 85 seggi in cui avrebbe vinto la Tikhanovskaja, ma anche del fatto che alcuni uffici elettorali avessero dovuto disfarsi di molte schede perché il totale dei voti superava il 100%), sono le inedite manifestazioni che risuonano come mai prima nelle piazze di Minsk, di Brest, di Grodno, di Mogilev, di Vitebsk. A dimostrazione del fatto che il dissenso non si limita alla sola capitale, anche se non è certo capillare nelle campagne. Lukashenko viene sempre più contestato, nonché ridicolizzato col meme “Sasha 3%” – secondo i suoi avversari, la sua vera percentuale di gradimento tra i bielorussi. Ma il presidente non ci sta e reagisce col pugno di ferro.
Nei giorni successivi accade di tutto. Le forze speciali antisommossa Omon, mobilitate per “riportare l’ordine”, provocano tre morti, centinaia di feriti, migliaia di arresti. E una scia apparentemente interminabile di “dispersi”, in realtà rinchiusi in celle di sicurezza sempre più piene. Pure la Tikhanovskaja sparisce – il suo stesso team ne perde le tracce quando ufficialmente va a presentare un ricorso formale alla Commissione elettorale – ma dopo poche ore di paura la si scopre fuggita in Lituania. La repressione non scoraggia i raduni popolari, che anzi si intensificano. Lo sciopero nazionale dell’11 agosto non si limita alle braccia incrociate ma include spesso assemblee dei lavoratori e momenti di discussione pubblica. Qualche giorno dopo, alla Marcia della Libertà, sfilano in piazza oltre 200mila cittadini, anche di fronte al monumento dedicato alle vittime della Seconda guerra mondiale. Probabilmente il più grande raduno spontaneo della storia bielorussa.
Lukashenko viene sempre più contestato, nonché ridicolizzato col meme “Sasha 3%” – secondo i suoi avversari, la sua vera percentuale di gradimento tra i bielorussi.
Cupcake Ipsum, 2015
Per Lukashenko i manifestanti sono “pecoroni manipolati” dai Paesi europei, un’affermazione che rischia di vanificare gli sforzi di avvicinamento al continente effettuati da Minsk nell’ultimo anno, per riequilibrare la dipendenza dalla Russia. Sul presidente bielorusso inizia a stringersi il cerchio, e a pesare l’isolamento. Sul fronte interno la reazione è quasi interamente affidata agli apparati di sicurezza, che subiscono pure qualche (ancora limitata) defezione. Lukashenko convoca una contromanifestazione popolare, che ottiene però magri numeri. E il tentativo di parlare con alcuni lavoratori in sciopero, nella più grande fabbrica di trattori di Minsk (17 agosto), finisce male anche per le tinte di paternalismo sempre meno tollerate dal suo uditorio.
Sul fronte internazionale, se possibile, le cose vanno ancora peggio. A partire dal mancato riconoscimento della correttezza del voto e dalla condanna delle violenze espressa dall’UE all’ONU, passando per i due interlocutori chiave Berlino e Washington. E poi vi è la Russia. L’attesa telefonata di Ferragosto con Putin produce meno di quanto Lukashenko sperasse. Ufficialmente, arriva la promessa di assistenza militare in caso di “minacce esterne”. Ma è proprio quest’ultima clausola a non far sentire “Sasha” al sicuro: i disordini hanno una chiara matrice interna, checché ne dica lo stesso autocrate bielorusso. E al Cremlino ne sono ben consapevoli, in quanto ormai conclamati esperti di rivoluzioni colorate e ingerenze esterne. A pesare, nelle scelte (non) effettuate da Putin, è il raffreddamento dei rapporti dell’ultimo anno con il collega. Non certo una sottovalutazione della Bielorussia, tassello più che centrale, anzi unico, della strategia difensiva di Mosca.
Dopo la telefonata tra i due leader, varie fonti registrano sensibili raggruppamenti di forze militari russe al confine con la Bielorussia. E date le premesse, non è chiaro da che parte potrebbero schierarsi, se davvero dovessero entrare nel Paese. Forse, e crediamo di non esagerare, non è chiaro nemmeno a Putin. Che ha tutta l’aria di attendere lo sviluppo degli eventi, prima di sbilanciarsi ulteriormente e commettere errori che potrebbero avere costi altissimi. Ad ogni modo, lo scenario attualmente più conveniente (e più probabile?) per Mosca sarebbe un salvataggio di Lukashenko a caro, carissimo prezzo. Che potrebbe tradursi in un aumento del (già contestato) costo delle forniture di idrocarburi a Minsk, o meglio ancora in una nuova stagione di fedeltà geopolitica. Questione particolarmente urgente dopo mesi di flirt con l’Occidente, a sua volta ansioso di strappare “Sasha” dalle braccia di Mosca.
Sarà però la piazza, almeno per una volta, a dettare le regole del gioco. I prossimi giorni saranno cruciali per comprendere se l’attuale rallentamento del fervore “rivoluzionario” sia dovuto a una fisiologica inerzia o tradisca qualche spaccatura più profonda, in seno all’opposizione. In quest’ultimo caso, Lukashenko potrebbe avere gioco facile a imporsi ancora una volta come unico baluardo contro il caos, benché politicamente non abbia più quasi nulla da offrire per il futuro e la sua immagine sia screditata a tutti i livelli o quasi. Se invece le proteste dovessero riprendere vigore, Russia e Occidente dovranno compiere una scelta molto delicata. E mostrare (soprattutto nel caso dei russi) se hanno saputo predisporre un “piano B”.