Appunto in ragione del suddetto legame, vale una forma adattata dell’antico proverbio greco: “se Gazprom piange, Mosca non ride“. Per il momento, a dire il vero, la società che ha sede nell’avveniristico Lachta-centr di San Pietroburgo non sembra passarsela poi malissimo: nel 2019 ha registrato entrate nette per più di 110 miliardi $ – per lo più in linea con gli anni passati (dal rilevante calo nel 2014 sono andate via via crescendo) e profitti per 38,7 miliardi $ (+1,1% rispetto al 2018).
I problemi sono arrivati, prevedibilmente, in concomitanza con il lockdown semi-globale per far fronte alla pandemia da Covid-19, il quale ha scombussolato l’intero mercato energetico oltreché la società umana tutta. L’utile netto del primo semestre del 2020 ha fatto registrare un crollo titanico: dagli 11 miliardi di inizio 2019 ai 447 milioni $ del periodo gennaio-giugno di quest’anno – ben venticinque volte di meno. Fisiologica conseguenza, questa, di prezzi più bassi e di un calo di domanda (e vendite) in quel giardino dell’Eden del gas russo che è l’Europa – con una domanda contrattasi del 16% su base annuale nel Vecchio Continente. A ciò si aggiunga che i produttori russi sono stati colpiti dal fuoco incrociato della svalutazione del rublo. Ciononostante, a Gazprom tengono a far presente come, pur nelle intemperie pandemiche, il gruppo sia riuscito a “tenere” meglio di molti altri competitors – il che è sostanzialmente vero ed è spiegabile alla luce del suddetto fenomeno di etero-dipendenza, che “permea”, tra gli altri, il controverso dibattito sul gasdotto Nord Stream 2.
A fronte di una risalita dei prezzi di petrolio e gas (l’oil benchmark russo Urals è oggi scambiato a 44-45$ al barile, a fronte dei 16,55 di aprile), il futuro rimane tuttavia estremamente incerto per gli operatori del settore – Gazprom inclusa. Come spiega l’analista di questioni energetiche Aleksandr Sobko su RIA Novosti, sebbene l’ambito energetico sia caratterizzato da ciclicità – riflettendosi il calo della domanda e dei prezzi in una diminuzione degli investimenti a medio-lungo termine, che in futuro influenzerà l’offerta e porterà ad un aumento dei prezzi del petrolio – la crisi attuale è significativamente diversa da quelle precedenti. È verosimile aspettarsi una ripresa molto lunga della domanda a causa della promozione di fonti di energia rinnovabile – specie nel mercato preferito dai russi: l’Europa, il che fa il paio con scorte globali già di per sé enormi, accumulate nel periodo primaverile.
Senza investimenti, la produzione cala, e meno petrolio viene estratto, più diventa caro. Comunque, “le aziende russe hanno un certo margine di sicurezza a causa di un carico fiscale piuttosto elevato, che, qualora il worst-case scenario dovesse prendere forma, può essere ridotto“, afferma Sobko, che aggiunge che Gazprom e co. “sarebbero ovviamente in parte a rischio se continuassero a mantenere alto il livello di investimento“. Tuttavia, aggiunge, “la ricompensa sarà probabilmente un profitto aggiuntivo per un periodo di tempo più lungo, sia per il budget che per le aziende stesse. In questo caso le società, difatti, sottrarranno tali profitti ai colleghi occidentali, che hanno paura (a prescindere dai rischi o dall’opinione pubblica) di investire nella produzione petrolifera.”
Nessuno scenario apocalittico all’orizzonte, ma al Cremlino sono consapevoli che il combinato disposto dell’ambiguità europea – sia nella ricerca di approvvigionamenti alternativi sia nelle controversie sui progetti infrastrutturali – e l’imprevedibilità del mercato Oil&Gas sono un male necessario, cui però si potrebbe far quantomeno fronte con un ambizioso progetto di diversificazione economica. Svincolarsi parzialmente dallo strumento che ha permesso alla Russia, assieme alla potenza militare, di rivendicare un ruolo da superpotenza globale non sarà facile, ma il tempo delle decisioni incombe sul Cremlino.