1989: il politologo indiano P. L. Dash scrive di “winds of change” che soffiano sull’Unione Sovietica in un articolo sulla rivista accademica Economic and Political Weekly. A svariati chilometri di distanza, Klaus Meine, frontman del gruppo heavy metal tedesco degli Scorpions, gli fa inconsapevole eco dalla sua stanza d’albergo a Mosca. La perestrojka gorbačëviana ispira l’artista nella composizione del brano che sarebbe diventato la colonna sonora della (successiva) riunificazione berlinese, nonché il secondo singolo più venduto di sempre in Germania: Wind of Change, per l’appunto.
Tuttavia, non è esattamente la questione europea-occidentale che Dash ha in mente nella sua analisi – o meglio, non primariamente. L’attenzione è difatti concentrata su di una piccola porzione di territorio caucasico, incastonata tra le Repubbliche socialiste sovietiche di Armenia e Azerbaijan: il Karabakh Montuoso, o Nagorno-Karabakh. Amministrativamente – l’epoca è quella sovietica – il nome ufficiale è Oblast’ autonoma del Nagorno Karabakh; una regione montuosa nella RSS Azera dove, a detta di Dash, “la popolazione si occupa prevalentemente di allevamento di bestiame e pecore, nonché di varie forme di attività agricola“. Popolazione che però è in gran parte armena, pur facendo parte dell’Azerbaijan – un’intolleranza reciproca, quella tra armeni etnici ed autorità azere, che porta ad un sanguinoso conflitto che quest’anno “celebra” il suo 28° anno di ostilità formale. Soprattutto, porta alla formazione di un auto-proclamato Stato filo-armeno con capitale a Step’anakert, non riconosciuto da alcun Paese membro dell’ONU (bensì dalle sole entità secessioniste filo-russe di Abcasia, Ossezia del Sud e Transnistria).
De jure, la questione è praticamente la più dibattuta nell’alveo del diritto internazionale dai tempi wilsoniani: se a prevalere debba essere il diritto (armeno) all’autodeterminazione dei popoli, oppure il rispetto del dogma della sovranità nazionale (azera). Dilemma privo di soluzione giuridica esaustiva, che lascia quindi spazio al fattore – questo sì determinante – dei rapporti di forza. Questi ultimi vedono oggi un sostanziale pareggio tra i contendenti. Forse non potrebbe essere altrimenti alla luce degli alleati-sponsor alle spalle di Armenia/Nagorno-Karabakh, da una parte, e Azerbaijan, dall’altra. Forte della comune appartenenza all’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (OTSC), l’Armenia ha nella Russia il suo principale alleato sin dai primi anni Novanta – anche in ragione di un meccanismo à-la-NATO, tale per cui i componenti dell’Organizzazione “coordinano e armonizzano i loro sforzi nella lotta […] alle minacce alla sicurezza degli Stati membri“. La ratio è molto simile a quella dell’articolo 5 del Patto Atlantico, a meno di giravolte diplomatiche od esegesi neutraliste.
L’Azerbaijan, che dell’OTSC ha fatto parte fino al 1999, ha invece nella Turchia un solido sostenitore politico-militare – come testimoniato dal celere e non proprio casuale (a pensar male si fa peccato…) afflusso di miliziani siriani filo-turchi nel Caucaso nelle scorse settimane. Ankara è stata peraltro l’unico grande attore esterno a non caldeggiare troppo un cessate il fuoco, bensì ad incitare una reconquista azera del Nagorno-Karabakh, facendosi fautrice di una strategia “colpo su colpo” in risposta agli ultimi attacchi armeni per difendere quello che un esponente dell’AKP ha definito “mondo turco“. Va inoltre rilevato come il notevole coinvolgimento di Erdoğan abbia quantomeno agevolato l’afflusso nel conflitto di centinaia di miliziani curdi del PKK e dell’YPG in difesa degli armeni – e quindi in offesa dei turco-azeri.
E la Russia? A differenza della controparte anatolica, Mosca si è da subito proposta come parte mediatrice, pur disponendo in ogni evenienza di una base militare a Gyumri – nel nord-ovest dell’Armenia – e di una aerea ad Erebuni – nei pressi della capitale Erevan. Il cessate il fuoco raggiunto nella capitale russa dopo circa 300 morti e 10 ore di negoziati tra le diplomazie azera e armena porta anche il nome del navigato ministro degli esteri Sergej Lavrov. Difatti, l’amministrazione Putin è sembrata avvertire molto più di quella Erdoğan l’improbabile ma presente rischio di un allargamento incontrollato della zona di conflitto, che in un worst-case scenario avrebbe potuto trascinare anche il vicino Iran e, potenzialmente, Israele (da cui gli azeri hanno recentemente acquistato il missile quasi-balistico LORA, inter alia). Senza dimenticare che la Turchia è un membro della NATO, con tutti i semi-apocalittici automatismi del caso in caso di conflitto.
Atteggiamento diplomatico, quello del Cremlino, che è inoltre condizionato dalle tutto sommato cordiali relazioni politiche intrattenute con Baku – che quantomeno cordiali lo sono indubbiamente di più rispetto a quelle tra Ankara e Erevan, su cui pesa invece il macigno della strage-genocidio novecentesca di controversa definizione. Alla luce di ciò, quando il premier armeno Nikol Pashinyan ha affermato di essere sicuro che Mosca interverrà in caso di invasione del territorio armeno, ha ribadito una nozione giuridica assai probabilmente corretta; ma non ha precisato che il Nagorno-Karabakh (o Repubblica di Artsakh, come ri-battezzata nel 2017) non è territorio armeno. Né che Mosca non è probabilmente disposta né ora né in futuro a “morire per Step’anakert”, parafrasando le parole del deputato francese Marcel Déat dopo l’invasione nazista della Polonia nel 1939. [A scanso di equivoci, non si intende equiparare le parti del ’39 con quelle odierne, NdA.] Diverso sarebbe però il discorso se il perimetro di guerra debordasse stabilmente in territorio sovrano armeno, oppure se fossero seriamente coinvolti obiettivi russi (come peraltro in parte avvenuto pochi giorni fa con il ferimento di alcuni giornalisti russi dopo un attacco aereo azero nei pressi di Şuşa). Da non sottovalutare, peraltro, come il focolaio di guerra sia pericolosamente vicino ad uno dei “ventri molli” della Federazione, oltre al confine sino-russo e a quello occidentale con la NATO: proprio quel Caucaso che più di tutti ha minato l’unità e la stabilità della Russia post-sovietica.
Nikol Pashinyan ha affermato di essere sicuro che Mosca sarebbe intervenuta in caso di invasione del territorio armeno, ma non ha precisato che il Nagorno-Karabakh non è territorio armeno.
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Nessuno vuole una guerra su vasta scala: certamente non la Russia, già alle prese con la seconda ondata di COVID-19 in patria e la turbolenta situazione bielorussa (senza dimenticare il Donbass, la Siria e la Libia – dove è indirettamente presente con l’ausilio della compagnia di mercenari Wagner); verosimilmente nemmeno la Turchia, che deve far fronte ad una rapida escalation con la Grecia (oltreché con Francia ed Egitto) nel Mediterraneo orientale e a numerose altre campagne frutto della nuova postura interventista di Ankara – su tutte, l’appoggio al governo libico del dimissionario al-Serraj. E forse è proprio in virtù di tale calcolo – che nessuno vuol fare la guerra – che Ankara è intervenuta in maniera così evidente e spregiudicata, come non aveva fatto nemmeno in occasione dell’ultima rilevante folata bellica nell’Artsakh, risalente al 2016.
Ma proprio come nel 1939 nessuno intendeva morire per Danzica, e a Mosca si faceva di tutto per tenersene fuori, non è detto che l’assunto in questione poggi su basi lungimiranti. Nuove violazioni del cessate il fuoco permettendo, questa volta Mosca pare aver avuto ragione. Appuntamento, purtroppo quasi inevitabilmente, ai prossimi venti di guerra caucasici.