In Nagorno Karabakh è di nuovo guerra tra Armenia e Azerbaigian. E a poco finora è valso il cessate il fuoco entrato formalmente in vigore il 10 ottobre, su mediazione della Russia.
Fin dai primi giorni, lo spettro del conflitto si è allargato coinvolgendo i civili. Oltre la linea del fronte, dove le forze azere per via di una notevole superiorità numerica stanno conseguendo inevitabili successi, le artiglierie hanno bersagliato rispettivamente Stepanakert, capitale della repubblica secessionista, e Ganja in Azerbaigian. Incerto il bilancio delle vittime, sicuramente più ampio delle 200 rivelate dagli schieramenti a cui si dovranno aggiungere i civili coinvolti nei bombardamenti e quei soldati di cui, per via di una propaganda nazionalista che tende a minimizzare perdite e nascondere arretramenti del fronte, si nasconde l’identità in seguito alla caduta sul campo di battaglia. L’entità degli scontri fa presagire la volontà di una parte, quella azera, di proseguire nell’offensiva con il nemmeno troppo latente obiettivo di mettere la parola fine alla decennale controversia e riconquistare quello che nella narrativa azera si percepisce come una dolorosa mutilazione al corpus patrio, un capitolo umiliante nella giovane storia del Paese.
Dalla fine degli anni Ottanta, il conflitto ha provocato circa 20.000 vittime e centinaia di migliaia di rifugiati da ambo le parti del conteso confine. L’autoproclamata Repubblica del Nagorno Karabakh (ufficialmente Repubblica dell’Artsakh*) gode di stretti legami con l’Armenia (sebbene Erevan non abbia formalmente riconosciuto l’indipendenza della repubblica separatista), mentre l’Azerbaigian insiste sul fatto che quest’area rappresenta una parte irrinunciabile del proprio territorio. Lo stallo che prosegue da quasi un trentennio sfocia regolarmente in scontri di piccola entità, simbolici avanzamenti e arretramenti e reciproche accuse in un clima di ostilità insanabile. Similmente agli eventi bellici di ridotta entità degli anni scorsi, gli scontri armati iniziati una decina di giorni fa sembravano seguire un identico filone, prima che gli eventi impennassero in un’escalation. Ma quali sono le radici storiche di questa animosità?
La presenza armena nell’area tradizionalmente comprendente l’odierno Nagorno Karabakh risale a circa tre millenni fa. Entro la fine dell’XI secolo, il territorio fu rivendicato da vari regni armeni via via succedutisi. In seguito alla migrazione di tribù turche che conquistarono la maggior parte della Transcaucasia nel XIII secolo, i governanti armeni locali, persa l’indipendenza, trascorsero i secoli successivi come sudditi dei diversi stati turchi e persiani. Questo ciclo si interruppe nel XIX secolo, quando l’impero russo, in seguito a una serie di guerre con gli ottomani e i safavidi, si impadronì della totalità della regione. Lungo tutto l’arco del dominio straniero, le comunità armene e musulmane che abitavano le aree ora comprendenti l’Armenia e Azerbaigian convissero fianco a fianco, spesso abitando quartieri delle stesse città. L’etnonazionalismo di matrice moderna penetrò anche in Transcaucasia alla fine del XIX secolo, con la genesi e il rafforzamento dei movimenti irredentisti armeno, azero e georgiano alimentando scontri aperti e pogrom, anche nell’area del Karabakh. Durante la Prima guerra mondiale, le relazioni tra le comunità armena e azera si inasprirono soprattutto dopo che decine di migliaia di armeni si riversarono nei territori controllati dalla Russia per sfuggire al genocidio perpetrato dall’impero ottomano. In seguito a questa si è sviluppata da parte armena una forte ostilità verso i turchi, estesa anche ai vicini azeri, di ceppo turco ma decisamente influenzati dai vicini persiani (gli azeri oggi sono principalmente musulmani sciiti).
Nella primavera del 1918, un anno dopo il crollo della Russia zarista e diverse settimane dopo il ritiro sovietico dalla Prima guerra mondiale, la Turchia lanciò un’offensiva in Transcaucasia, questa volta contro i nazionalisti armeni. La campagna militare si inserì in un contesto di generale aumento delle tensioni etniche in tutta la regione. Alla fine di marzo 1918, la maggioranza azera di Baku si scontrò con gli armeni (che allora costituivano circa il 20% della popolazione della città). I disordini culminarono nell’eccidio di 12.000 azeri – almeno secondo gli storici di tale parte, mentre le fonti armene parlano di un numero di vittime da cinque a sei volte inferiore. Alla fine di maggio 1918, Georgia, Azerbaigian e Armenia dichiararono ciascuna la propria indipendenza. Il territorio ora inteso come Nagorno Karabakh, abitato principalmente da armeni etnici, si unì al Governatorato di Baku per formare la repubblica dell’Azerbaigian. Incapace di resistere agli attacchi dell’esercito turco e minacciato di occupazione, il nascente Stato armeno accettò numerose concessioni territoriali non opponendosi all’accorpamento del Nagorno nel territorio azero. Nel marasma generale, le truppe della Triplice Intesa cercarono di fermare l’avanzata dell’esercito turco conquistando la città di Baku. Nel settembre 1918, unità ottomane dell'”Esercito Islamico del Caucaso” entrarono a Baku e giustiziarono almeno 10.000 armeni locali, impadronendosi anche del vicino Nagorno.
La fine del primo conflitto mondiale comportò l’uscita dell’impero ottomano dal conflitto, l’inizio delle convulse fasi del suo sfaldamento e il ripiegamento delle forze d’occupazione, comprese quelle di stanza nel Caucaso, permettendo quindi agli armeni di riprendere brevemente il controllo del Nagorno Karabakh. In un primo momento, gli inglesi riempirono il vuoto lasciato dai turchi in ritirata. Nel 1919, Londra tentò senza successo di convincere la comunità armena del Nagorno Karabakh a riconoscere le rivendicazioni territoriali dell’Azerbaigian. Nel frattempo, le truppe azerbaigiane lanciarono una nuova offensiva nella regione con l’obiettivo allontanare le forze armene anche invocando una drastica campagna di pulizia etnica. Superati in numero dagli avversari, e prostrati da anni di conflitto, gli armeni del Karabakh accettarono di riconoscere l’autorità dell’Azerbaigian, anche se con diverse riserve. Nella primavera del 1920, le unità armene lanciarono una sfortunata controffensiva che si concluse tragicamente per la comunità locale quando le forze azere respinsero l’attacco e per ritorsione si sfogarono contro il quartiere armeno di Shusha, l’allora capitale del Nagorno Karabakh con il consueto codazzo di morti, feriti e profughi.
La guerra finì quando l’Armata Rossa, reduce dalla vittoria nella guerra civile russa, invase il Caucaso in forze, occupando sia Armenia che Azerbaigian e instaurandovi delle repubbliche socialiste poi inglobate nel corpus dell’Unione Sovietica. Gli armeni del Karabakh speravano che la loro regione sarebbe stata riunita all’Armenia, ma i sovietici decisero di lasciarla come parte della Repubblica socialista sovietica dell’Azerbaigian. Artefice dell’iniziativa l’allora commissario per le nazionalità, Iosif Stalin. Sebbene a maggioranza armena (stando a sondaggi dell’epoca il 94% degli abitanti nel neonato Oblast autonomo del Nagorno Karabakh era costituito da armeni etnici) il Nagorno Karabakh fu assegnato all’Azerbaigian dalle autorità bolsceviche nel 1921. Inserire importanti minoranze etniche nei territori delle Repubbliche che componevano l’Unione Sovietica era pratica comune dell’epoca staliniana. Era considerata una misura di “sicurezza” per evitare l’insorgere di nazionalismi locali, contrari all’ideologia marxista-leninista dell’Unione Sovietica. Per complicare ulteriormente le cose, imprigionando la regione in un “dividi et impera” machiavellico, i funzionari sovietici privarono il Nagorno di un confine comune con l’Armenia, rendendo la regione un’enclave all’interno del territorio azero.
Lungo tutto il ciclo vitale dell’Unione Sovietica non vi furono conflitti etnici su vasta scala nel Nagorno Karabakh, ma le tensioni non cessarono del tutto: troppo forte il sentimento d’umiliazione degli armeni e la volontà di riscatto irredentista degli abitanti defraudati del Nagorno. Per settant’anni i leader armeni chiesero a Mosca il trasferimento del Nagorno Karabakh nella RSS armena, appoggiati da ampie asce di popolazione interna. Così come nei Baltici e in Asia Centrale, il punto di svolta coincise con la Perestrojka. A seguito di sporadici scontri etnici all’inizio del 1988, i deputati del partito comunista del Nagorno Karabakh iniziarono a invocare l’inglobamento della regione in territorio armeno, facendo eco alle richieste delle manifestazioni a Erevan. Entro l’estate, gli scontri violenti erano diventati una triste routine. Una serie di pogrom attraversarono l’Armenia e l’Azerbaigian inscenando un esodo di massa di armeni dall’Azerbaigian e azeri dall’Armenia. A inizio degli anni Novanta, 350.000 armeni risiedevano in territorio azero (senza contare il Nagorno Karabakh) e circa 200.000 azeri in Armenia. Tre quarti degli abitanti del Nagorno Karabakh erano invece di etnia armena.
Nel gennaio 1990, in risposta a un pogrom compiuto dai nazionalisti azeri a Baku e costato la vita a diverse dozzine di armeni, l’esercito sovietico entrò in città, provocando scontri e centinaia di morti (il “gennaio nero” oggi commemorato in Azerbaigian con un giorno di lutto nazionale). Il maldestro tentativo delle autorità sovietiche alimentò ulteriormente la tensione nel Nagorno Karabakh, dove iniziarono a verificarsi vere e proprie battaglie. Dopo il crollo dell’Unione Sovietica, il conflitto divenne una guerra a tutti gli effetti, con brutali massacri e pulizie etniche: seicentomila azeri e trecentomila armeni furono costretti a fuggire dalle loro case. Solo nell’estate del 1994 fu raggiunto un cessate il fuoco. Con il sostegno dell’Armenia, l’autoproclamata Repubblica del Nagorno Karabakh riuscì nell’obiettivo non solo di mantenere il controllo sul suo territorio dell’ex oblast autonomo, ma anche di conquistare uno strategico lembo di terra al confine con l’Armenia, cessando così di essere un’exclave isolata (da questo territorio gli abitanti del Nagorno commerciano con la madrepatria e ricevono, tuttora, rinforzi e supporto bellico). In totale, la guerra causò la morte di oltre 15.000 soldati e diverse migliaia di civili. La cessazione dei combattimenti, tuttavia, non portò a una vera pace. Periodicamente da una parte e dall’altra della barricata si verificano combattimenti sporadici, scambi di artiglieria, colpi di mano e raid. In media, combattendo lungo il confine ogni anno perdono la vita trenta soldati.
Da quando il conflitto è stato “congelato” lungo la linea del cessate il fuoco, più di una volta si sono verificati scontri tra l’esercito locale, supportato dall’Armenia, e le truppe azere. L’ultimo scontro che aveva riacceso i timori di un conflitto su vasta scala si era svolto nell’aprile 2016. In quella che è conosciuta come “la guerra dei quattro giorni” l’esercito azero riuscì a strappare alla controparte piccoli lembi di territorio del Nagorno Karabakh, spostando la linea di contatto del fronte per la prima volta dal 1994, ma al prezzo di diverse centinaia di morti. La portata e le modalità delle operazioni militari, oltre al numero di vittime fra la popolazione civile, ha assunto i connotati di vera e propria guerra il cui termine giunge con un accordo di cessate il fuoco mediato da Russia e Stati Uniti. Sebbene il successo dell’Azerbaigian sia stato meramente simbolico, ha avuto l’effetto di superare il trauma nazionale della precedente sconfitta. Molti analisti si sono domandati le ragioni di una così violenta recrudescenza dello scontro. Oltre alle consuete motivazioni nazionaliste e alle dinamiche di consenso interno, emerge l’ipotesi che l’Azerbaigian abbia scatenato l’attacco per coprire (soprattutto all’interno) la notizia dello scandalo dei Panama Papers, esploso proprio in quei giorni e che fra gli altri ha coinvolto la famiglia del presidente Aliyev.
L’impasse bellica (parzialmente rovesciata in questi giorni) e il conseguente stallo nei negoziati, a differenza della narrativa nazionalista dei due Paesi in conflitto, non è ovviamente imputabile in toto a uno a all’altra parte. Dalla fine della guerra del 1994 il Nagorno Karabakh ha assunto un’importanza sempre maggiore nella retorica nazionalista delle due repubbliche ex sovietiche. Da parte armena l’Artsakh ha assunto un’importanza strumentale, da exclave in territorio azero a tassello fondamentale dell’etnogenesi storica del popolo armeno, territorio pienamente appartenente alla madrepatria e fulcro di quella Grande Armenia ben più estesa della piccola repubblica odierna. Dall’altro lato una democratura a tutti gli effetti, un regime nepotista ha fatto della riconquista del Nagorno e dell’unificazione territoriale, una catarsi inderogabile utile per cementare l’accentramento di potere e tacitare il dissenso interno. Posizioni massimaliste, dunque, che hanno troncato sul nascere ogni possibile approccio conciliatorio mediato dal gruppo di Minsk (struttura di lavoro creata allo scopo di incoraggiare una soluzione pacifica e negoziata e presieduto da Francia, Russia e Stati Uniti d’America) deludendo le aspettative internazionali. In seguito alla Rivoluzione di velluto, quando il primo ministro Pashinyan è entrato in carica nel 2018, sembrava che il consenso politico dell’Armenia potesse cambiare sulla questione del Nagorno Karabakh, ma l’ex attivista ha rapidamente dimostrato di non avere intenzione di cambiare rotta nella regione. Nel corso di una visita a Stepanakert, Pashinyan ha apertamente troncato sul nascere ogni trattativa che avrebbe previsto la cessione di territorio. Baku, di sua sponte, non ha mai veramente mostrato l’intenzione di scendere a trattative alla luce della sua superiorità militare, economica e del supporto internazionale. Per l’Azerbaigian ha prevalso l’opzione militare.
A differenza dei progressi puramente cosmetici raggiunti nel corso dei quasi trent’anni precedenti, un Azerbaigian economicamente debilitato dal calo dei prezzi delle materie prime e dall’insorgere della pandemia di coronavirus, nonché infastidito da un’opposizione mai davvero schiacciata definitivamente, sta provando a scaricare sul fronte bellico le tensioni e le divisioni interne, una strategia dai risultati incerti. Quali potrebbero essere gli sviluppi futuri esula dai fini di questa analisi, ma è pressoché certo che le sole armi non riusciranno a mettere la parola fine a uno dei più aspri conflitti storici del turbolento Caucaso.
* È storicamente esistita una provincia dell’antico Regno d’Armenia chiamata Artsakh, il cui territorio corrisponde generalmente a quello che oggi è considerato il Nagorno Karabakh. La parola “Karabakh” è apparsa per la prima volta nel Medioevo dopo l’arrivo delle tribù turche in Transcaucasia. La teoria più diffusa sostiene che combini la parola turca per “nero” (kara) e la parola persiana per “giardino” (bakh). Secondo la Costituzione della Repubblica del Nagorno Karabakh, i nomi Artsakh e Nagorno Karabakh sono equivalenti, ma solo gli armeni usano “Artsakh”, il che rende “Nagorno Karabakh” il toponimo più neutro.
Bibliografia
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