L'”eterna” guerra del Nagorno Karabakh si è riacutizzata per volere dell’Azerbaigian, il contendente più favorito dalle attuali contingenze geopolitiche. E spinto allo scontro dalla necessità di smarcarsi dalla crisi energetica, che potrebbe metterne in discussione il sistema di potere.
Il 27 settembre 2020 si è riacceso il conflitto tra Azerbaigian e Armenia per il controllo del Nagorno Karabakh e delle zone adiacenti, territori de iure azerbaigiani ma de facto controllati da separatisti armeni. Mentre in passato ci sono stati sporadici scontri tra le due parti lungo linea del cessate-il-fuoco, questa volta è in atto una vera e propria offensiva militare dell’Azerbaigian volta a riconquistare almeno una parte dei territori occupati. Pur non essendo possibile decretare con certezza chi abbia attaccato per primo il 27 settembre (entrambi gli Stati accusano l’altra parte di averlo fatto per prima), esperti di Caucaso come Thomas De Waal sono ormai convinti che l’Azerbaigian abbia iniziato l’offensiva per primo tentando di cogliere di sorpresa le difese armene [1]. Ciò solleva inevitabilmente alcuni quesiti:
Perché Ilham Aliyev, attuale presidente dell’Azerbaigian, ha deciso di riaccendere il conflitto proprio ora? Cosa è cambiato rispetto al passato?
Con questo articolo cercheremo dunque di dare una risposta informata a queste domande.
Iniziando con gli aspetti di politica interna, bisogna segnalare come l’economia dell’Azerbaigian dipenda fortemente dall’esportazione di gas e petrolio, che complessivamente nel 2018 rappresentavano oltre il 90% dell’export del Paese in termini di ricavi [2]. Per l’anno 2020 è stato infatti stimato che quasi il 47% del budget statale del 2020 sarà finanziato da trasferimenti da parte di SOFAZ – il fondo sovrano del paese che investe i ricavi da petrolio e gas [3]. Se è pur vero che l’economia privata è cresciuta parallelamente a quella pubblica, questo è per buona parte dovuto al fatto che lo Stato spende molto in progetti infrastrutturali, non tutti peraltro di particolare utilità, per cui in sostanza la crescita del settore privato è trainata dalla spesa pubblica [4]. Con il crollo dei prezzi del petrolio iniziato a metà 2014 e acuitosi nel 2020, l’economia azera ha inevitabilmente subito forti contraccolpi e il presidente Ilham Aliyev si è trovato a dover gestire un crescente malcontento popolare dovuto al peggioramento delle condizioni materiali delle persone. Ad esempio, nel corso del 2015 il governo ha dovuto svalutare per due volte la valuta locale – il manat – facendole perdere complessivamente il 50% del suo valore nei confronti del dollaro, dopo aver infruttuosamente cercato di reggere il precedente cambio fisso bruciando 8 miliardi di dollari in riserve straniere. Queste manovre hanno diminuito il valore dei risparmi degli azeri e creato inflazione [5].
Oltre al malessere causato dai prezzi del petrolio bassi, nel 2020 si è aggiunto il problema Covid-19 che ha ulteriormente danneggiato l’economia del Paese a causa del lockdown imposto dal governo e del crollo del turismo [6]. La concomitanza della pandemia con prezzi del petrolio bassi non ha poi permesso al governo di sostenere adeguatamente i propri cittadini tramite sovvenzioni e stimoli statali. Di fronte ad una silenziosa ma crescente impopolarità dovuta alle ristrettezze economiche, Ilham Aliyev ha quindi deciso di giocare la carta del nazionalismo per riottenere consensi e distogliere l’attenzione dai problemi interni al Paese. Il riaccendersi del conflitto va dunque inquadrato come il tentativo di un autocrate in difficoltà [7] di mantenere il potere puntando sull’aumento di popolarità che gli conferirebbe una vittoria anche solo parziale sull’odiato nemico armeno.
Oltre agli aspetti di politica interna, la congiuntura politica internazionale e i tempi sono particolarmente favorevoli per riaccendere il conflitto. Innanzitutto, i prezzi del petrolio bassi non permetterebbero in futuro all’Azerbaigian di accumulare un vantaggio militare sull’Armenia nelle dimensioni viste sinora (tra il 2009 e il 2018 l’Azerbaigian ha speso circa 23 miliardi di dollari nel settore bellico, mentre l’Armenia solo 4.34 miliardi). Come è infatti possibile evincere dal grafico sottostante, vi è una correlazione piuttosto stretta fra spesa militare e prezzi del petrolio, con questi ultimi che dovrebbero rimanere bassi per i prossimi anni. Da un punto di vista temporale, quindi, l’accumulo di potenza bellica è arrivato ad un punto ottimale.
L’Azerbaigian, inoltre, giova direttamente della nuova politica estera del presidente turco Erdoğan che mira a proiettare potere nel Mediterraneo orientale, in Siria, in Iraq, e nel Caucaso [8]. I due Paesi godevano sin dal principio di ottime relazioni diplomatiche – Ankara fu la prima a riconoscere l’indipendenza dell’Azerbaigian nel 1991 e mantiene le frontiere chiuse con l’Armenia per la questione del Nagorno Karabakh sin dal 1993 – anche grazie alla vicinanza etnica e linguistica delle due popolazioni turchiche. Ma negli ultimi anni Aliyev ed Erdoğan hanno iniziato a stringere relazioni ancora più strette sia in campo economico che in campo militare, come mostra per esempio la vendita di droni all’Azerbaigian che si sommano a quelli acquistati da Israele [9].
L’Armenia ha anche accusato la Turchia di aver trasportato mercenari islamisti dalla Siria per combattere a fianco delle truppe azere e di aver utilizzato i propri aerei F-16 nel conflitto, ma al momento non è possibile stabilire con totale certezza se queste accuse siano fondate. Quello che invece è certo è l’appoggio militare turco – tramite i già citati droni – e diplomatico – tramite messaggi istituzionali che comunicano il totale appoggio della Turchia al “fratello” Azerbaigian. Per esempio, sulla pagina Twitter del Ministero della Difesa turco è apparsa l’immagine sottostante che mostra due soldati dei rispettivi Paesi stringersi la mano in segno di unione. Sempre su Twitter, Erdoğan ha affermato che “L’Armenia ancora una volta ha mostrato di essere la più grande minaccia alla tranquillità e alla pace nella regione” e che “Come sempre, la nazione turca sta al fianco dei suoi fratelli azerbaigiani con tutti i propri mezzi” [10]. È quindi evidente come Aliyev possa essere stato rassicurato nel riaccendere il conflitto grazie all’appoggio esplicito offertogli da Erdoğan.
L’ultimo tassello in politica internazionale che spiega la congiuntura favorevole per l’Azerbaigian è il diminuito interesse e potere di Stati Uniti e Russia nell’area. Gli Stati Uniti, infatti, hanno deciso di disimpegnarsi il più possibile da conflitti che il presidente non ritiene essere sufficientemente degni di tempo e risorse economiche. Trump, inoltre, è alle prese con le imminenti elezioni e grandi problemi di politica interna, motivo per cui l’America non ha condannato con eccessiva veemenza le azioni dell’Azerbaigian e presumibilmente agirà come attore di secondo piano. La Russia, invece, è probabilmente impegnata su troppi fronti – Libia, Siria, Bielorussia, Ucraina e Caucaso – e non ha più ormai sufficienti risorse economiche e di soft power per fungere credibilmente da deterrente. A questo si aggiunge il problema dei prezzi del petrolio bassi, del Covid-19 che ha ulteriormente colpito un’economia già debole, e l’irrisolto scandalo Naval’nyj che rischia di generare altre sanzioni al Paese. L’immediata violazione dell’accordo di cessate-il-fuoco mediato dal ministro degli Esteri russo Lavrov a Mosca mostra proprio come il soft power russo sia in diminuzione nel Caucaso [11].
Dunque il conflitto in Nagorno Karabakh è stato molto probabilmente riacceso dal presidente azerbaigiano Aliyev per riottenere popolarità, e mantenere saldo il suo potere di fronte ad un crescente malcontento populare causato dalle difficoltà economiche – a loro volta generate da prezzi del petrolio bassi e dal lockdown per il Covid-19. Ma questo azzardo politico è stato reso possibile dalla particolare congiuntura internazionale di questo periodo, che vede da una parte una Turchia alleata di Baku sempre più aggressiva in politica estera e pronta a offrire il suo supporto, e dall’altra Mosca e Washington sempre meno interessati o capaci di intervenire nel Caucaso poiché alle prese con problemi più urgenti. Una finestra di opportunità ben colta dall’Azerbaigian.
Yeşil Bey
Riferimenti
[1] War has broken out on the edge of Europe. What’s behind it?Thomas de Waal. The Guardian – Opinions, 10/10/2020.
[2] https://oec.world/en/profile/country/aze/
[3] Global Oil Crisis Will Have a Dramatic Effect on Azerbaigian’s Budget. GubadIbadoghlu. Crude Accountability, 07/05/2020.
[4] Oil Lifts all Boats? Social and Economic Repercussions and the rise of Corruption. Capitolo 4 de Frustrated Democracy in Post-Soviet Azerbaigian. Audrey L. Altstadt.
[5] Azerbaigian’s Perfect Storm. Thomas de Waal. Carnegie Europe, 19/01/2016.
[6] “A lost year” — How the Global Pandemic Has Hit Azerbaigian’s Economy.
KamranMahmudov. OC Media, 26/05/2020.
[7] Freedom House consideral’Azerbaigian un “consolidated authoritarian regime“. https://freedomhouse.org/country/Azerbaigian/nations-transit/2020
[8] As Turkey’s Economy Goes, So Goes Its Ambitions. Caroline D. Rose. Geopolitical Futures, 30/09/2020.
[9] Turkey’s Armed Drones Bolster Erdogan’s Hard-Power Tactics. Laura Pitel. Financial Times, 08/10/2020.
[10] Armenians accuse Turkey of involvement in conflict with Azerbaigian. Joshua Kucera. Eurasianet, 28/09/2020.
[11] Nagorno-Karabakh: Armenia and Azerbaigian accuse each other of violating ceasefire.Alice Tidey. Euronews, 10/10/2020.