I colpi di artiglieria scambiati a metà luglio scorso lungo il confine armeno-azero erano il primo campanello d’allarme delle nuove tensioni nel Nagorno-Karabakh. Giornate seguite da grandi manifestazioni di piazza a Baku che inneggiavano alla guerra contro Yerevan. L’escalation di questi ultimi giorni si distingue dalle violenze del passato per la maggior “spettacolarità”, dagli attacchi di droni ai bombardamenti sulle strutture civili sia a Stepanakert, capitale dell’autoproclamata Repubblica dell’Artsakh, sia a Ganja in Azerbaigian. Ciò che preoccupa maggiormente gli osservatori internazionali però è la posizione assunta da Ankara nel conflitto. In Siria, in Libia e nel Mediterraneo orientale la Turchia ha messo più volte in difficoltà gli alleati della NATO. Come se non bastasse, Ankara ha instaurato un rapporto privilegiato, ma al tempo stesso molto complicato, con la storica rivale Mosca. I due Paesi sono impegnati ad ostacolarsi a vicenda e a venirsi incontro a seconda delle questioni più o meno bollenti. Un rapporto che si basa su un pericoloso gioco a somma zero con la latente minaccia dell’implosione per un calcolo sbagliato. La ricerca del compromesso tra le due parti è perciò ormai una costante.
La Turchia dei governi AKP di Erdoğan ci ha abituato negli ultimi vent’anni a una politica estera autonoma, di ampio raggio e multidirezionale verso i Balcani, il Caucaso, il Corno d’Africa, l’Asia Centrale e il Medio Oriente. Un piano molto ambizioso di “zero problemi con i vicini” (Iran, Iraq, Israele e Siria), pur rimanendo fedele alla NATO e senza abbandonare ufficialmente il processo di adesione all’UE. Una politica figlia della dottrina della “profondità strategica” di Ahmet Davutoğlu, docente universitario, ex numero due del partito AKP, ex ministro degli esteri ed ex primo ministro prima della sua “caduta”. La dottrina è finita infatti per scontrarsi con gli avvenimenti e i grandi mutamenti della storia ancora in corso nelle aree di proiezione dell’interesse turco. Nel contesto delle Primavere arabe, infatti, la Turchia è intervenuta politicamente ed economicamente a sostegno dei gruppi affiliati alla Fratellanza Musulmana contro i rispettivi regimi in Tunisia, Libia, Egitto e Siria. Tuttavia, l’annientamento della Fratellanza Musulmana in Egitto e le relazioni ambigue con alcune frange fondamentaliste islamiche in Siria hanno sporcato l’immagine e la credibilità internazionale della Turchia, accortasi di essere rimasta isolata durante il tentato golpe del 2016 (fatta eccezione per l’alleanza con il Qatar). Un danno d’immagine che ha condotto alla messa in disparte della dottrina Davutoğlu e l’apertura di una nuova stagione di interventismo militare su più fronti.
Ankara ha “ripulito” la propria immagine con il sostegno militare al governo di Tripoli, riconosciuto dalla comunità internazionale, nonché ultimo baluardo della Fratellanza Musulmana. La martellante propaganda turca sull’integrità territoriale e sulla liberazione nazionale dalle interferenze dello straniero, prima in Siria e poi in Libia, è giunta fino all’Azerbaigian, il cui territorio del Nagorno Karabakh è occupato in buona parte dall’Armenia e dalla Repubblica dell’Artsakh. La regione secessionista a maggioranza armena non è riconosciuta a livello internazionale, neanche Yerevan stessa, che occupa illegalmente territori azeri. Mentre Ankara dava il via all’intervento militare a sostegno di Tripoli, Baku dispiegava nuovi armamenti di produzione turca nella sua enclave del Nakhchivan, tra cui aerei F-16 e i droni Bayraktar TB2. Proprio questi droni, noti per le operazioni turche in Libia, sono utilizzati oggi dalle forze azere contro le postazioni armene lungo il confine tra l’Artsakh e l’Azerbaigian. Inoltre, fonti russe ed armene riportano la notizia dell’impiego di guerriglieri jihadisti di al-Nusra, provenienti dal teatro siriano e libico, pagati e inviati dai turchi come mercenari a sostegno di Baku. Potrebbe essere vera anche la notizia, riportata dalle fonti turche, della presenza di milizie curde del PKK tra le fila armene.
Ankara è lo storico alleato di Baku. Turchi ed azeri condividono interessi strategici, politici ed economici in funzione anti-armena. Inoltre, i due Paesi portano avanti insieme una propaganda panturca e pro-islamica proiettata verso i popoli turanici e turcici dell’Asia. L’Azerbaigian è un Paese a netta maggioranza sciita, ma alleato strategico della Turchia sunnita e rivale dell’Iran sciita. Azeri e persiani condividono le radici religiose e in Iran la minoranza azera è la più consistente. Seppur abbastanza integrata, questa minoranza è tenuta sott’occhio dal governo iraniano, perché vicina culturalmente all’elemento turco. Per anni Ankara ha avuto grandi capacità persuasive nei confronti di Baku e ha sempre invitato l’alleato a moderare i toni, a non cedere alle provocazioni e ad evitare la ripresa del conflitto. La presenza di armi turche in mano azera e l’utilizzo di milizie jihadiste impiegate in un teatro bellico dai toni sempre più vicini alla pulizia etnica o alla guerra santa, è causa di squilibrio militare e forte preoccupazione per Yerevan. L’Armenia ha infatti minacciato di riconoscere l’indipendenza della Repubblica dell’Artsakh e di intervenire per difendere le sue terre, nel caso gli attacchi azeri e il sostegno turco dovessero continuare. Mosca è poco pervenuta fino ad oggi, perché neutrale fino a prova contraria, sorpresa e non abituata a dialogare con altri “Paesi forti” nel Caucaso.
Se la storica posizione di mediazione della Russia sembra essere in difficoltà, quella turca è chiara e appoggia le richieste azere: il ritiro delle forze armene dalle zone occupate e la riunificazione della regione secessionista. Ankara dal canto suo porta avanti un dibattito pubblico interno spregiudicato e volto ad esaltare il nazionalismo panturco. Il fratello azero più scacciare e sconfiggere il comune nemico storico armeno con l’aiuto della moderna tecnologia bellica turca. Discorso che trova compiacimento soprattutto tra le fila dei nazionalisti turchi del partito di estrema destra MHP, bastone fondamentale di sostegno al governo AKP. La solidarietà per la causa azera è condivisa anche dai nazionalisti più “di sinistra” e del partito di opposizione CHP. Perciò la Turchia è entrata a gamba tesa dove nemmeno gli ottomani si erano spinti (tranne una breve parentesi 1578-1590), in una regione storicamente di interesse esclusivo dei russi. Mosca infatti esercita un monopolio su quasi tutte le questioni legate agli interessi territoriali (Abcasia e Ossezia del Sud) ed energetici degli altri Paesi nella regione, come la Georgia (che fa passare sul proprio territorio il gasdotto proveniente dal Mar Caspio e diretto in Turchia verso l’Europa, il Corridoio Meridionale del Gas) e l’Iran (l’Armenia importa gas dalle regioni persiane). Inoltre, la cosiddetta Transcaucasia è una regione con importanti interessi di sicurezza internazionale. La memoria ci riporta al terrorismo ceceno, daghestano e a tutti quei gruppi terroristi fondamentalisti islamici della galassia qaedista, tutt’altro che cellule dormienti.
Mosca vende armi sia all’Azerbaigian sia all’Armenia e con entrambi i Paesi ha buone relazioni (ma non idilliache) seppur sembri preferire Yerevan. L’Armenia aderisce alla CSTO, l’alleanza difensiva promossa dalla Russia, che prevede l’obbligo di difenderei paesi alleati in caso di attacco straniero sul proprio territorio. Il Nagorno Karabakh non rientra in questo patto, in quanto territorio non formalmente armeno. Va detto che Putin non ha mai visto di buon occhio la Rivoluzione di velluto del 2018 a Yerevan promossa dall’attuale premier Nikol Pashinyan. Considerato troppo filo-americano e filo-europeista, Pashinyan è messo sotto pressione dai russi, perciò non può permettersi una posizione contraria agli interessi di Mosca, che ha pure due importanti basi militari sul suolo armeno e rimane il principale partner di difesa per Yerevan. L’Azerbaigian è meglio armato rispetto al passato. Oggi probabilmente è un Paese più ricco e più forte dell’Armenia. La spesa per il riarmo azero negli ultimi venti anni è nove volte maggiore di quella armena, questo grazie ai ricchi guadagni dall’esportazione di gas e petrolio. Gli azeri comprano armi pure da Israele, che importa petrolio azero dalla Turchia (principale via di esportazione di petrolio e gas azero) e ha interessi strategici con questi due Paesi in funzione anti-iraniana.
A Baku siamo di fronte ai primi risultati di una lunga fase di riarmo portata avanti dal governo autoritario di Ilham Aliyev. Il presidente azero, di fatto il secondo della dinastia Aliyev, ha bisogno ora più che mai della retorica nazionalista e bellica per distrarre l’opinione pubblica interna dalla crisi economica e dalla conseguente crisi di consenso. Una necessità che condivide con Erdoğan, il presidente di un Paese, quello turco, che ha pessime relazioni storiche con gli armeni e non ha relazioni diplomatiche con Yerevan. Il contesto sembra essere quello tipico dei periodi prebellici, quando un Paese in crisi cerca un nemico esterno o interno a cui scaricare colpe, meglio ancora se con un conto in sospeso da pagare. Un nemico da vincere una volta per tutte. Tuttavia, a conti fatti e a distanza di trent’anni, nel Nagorno Karabakh è più probabile che in questa fase nessuno vinca o che tutti perdano la faccia. Turchia compresa.
Massimo Ronzani