Sin dallo scoppio delle ostilità nel Nagorno-Karabakh, l’Unione Europea si è adoperata per ristabilire il dialogo, condannando la propaganda aggressiva e invocando l’immediato cessate il fuoco tra le parti. Ideali e intenzioni di pace lodevoli, ma, purtroppo, spesso insufficienti a stabilire progressi effettivi in questa direzione. L’attuale conflitto nel Caucaso meridionale esplicita ancora una volta i limiti dell’azione diplomatica di Bruxelles. Non esistono solamente le “due velocità” tra gli Stati membri, ma anche due misure nelle sue relazioni internazionali.
Bruxelles nel Caucaso
UE, il limite degli strumenti e delle strategie
“Il conflitto sta peggiorando e l’Europa può fare ben poco“, questa potrebbe essere la summa del discorso dell’Alto Rappresentante UE per gli affari esteri e la politica di sicurezza Josep Borrell durante la sessione plenaria del Parlamento europeo del 7 ottobre scorso. Borrell ha espresso tutta la sua preoccupazione per la situazione nel Caucaso, confermando il massimo impegno di Bruxelles per agevolare il dialogo tra le parti. I contatti telefonici con Baku e Erevan sarebbero costanti, così come attivamente sta operando il Rappresentante speciale per il Caucaso meridionale, Toivo Klaar, mentre 500,000€ in aiuti umanitari sono già stati stanziati. Borrell ribadisce, inoltre, il totale supporto al Gruppo OSCE di Minsk (in cui la Francia è il principale esponente UE, rivestendo il ruolo di co-presidente), pur esplicitamente riconoscendone la scarsa efficacia in 30 anni di negoziazioni.
Nel discorso dell’Alto Rappresentante traspare una certa rassegnazione, affermata ammettendo che Bruxelles sta facendo tutto il possibile previsto dalle sue funzioni diplomatiche. A chi chiede all’UE di agire, di entrare in azione, Borrell altrettanto decisamente risponde negando qualsiasi ipotesi: “Cosa intendete per “agire”? […] Se pensate ad un intervento militare, è assolutamente fuori discussione“, oltre che impossibile per la Clausola di Solidarietà (TFUE, art.222).
Ai limiti formali dell’istituzione europea si sommano, tuttavia, le debolezze legate ad approcci ormai stantii, che se in tempo di pace stentano a rafforzare la presenza UE nella regione e il dialogo tra i contendenti, nei momenti di crisi palesano tutta l’inefficacia dell’azione europea. L’opera di mediazione è, infatti, fortemente influenzata dai paradigmi storicamente adottati da Bruxelles, che ne hanno ingessato l’azione nei contesti de facto. Nel Nagorno-Karabakh, così come in Abcasia, Ossezia del Sud, Transnistria o Cipro Nord, l’Unione Europea resta inerte al confronto laddove fissa i cardini della propria politica nel vicinato orientale nel riconoscimento dell’integrità territoriale di tutti i suoi partner. È comprensibile come il principio sia imprescindibile nelle relazioni con ciascuno di questi, ma allo stesso tempo ha comportato una quasi totale assenza di contatti con le istituzioni de facto, isolandole ulteriormente e spingendole ancora di più sotto l’egida della potenza regionale più prossima e interessata, Mosca. La posizione europea si è sempre basata sull’assunto per cui, secondo i policy makers di Bruxelles, queste piccole entità autoproclamate sarebbero collassate rapidamente, convinzione evidentemente smentita e che ha contribuito alla fallacia dell’approccio europeo.
A questo proposito, sono interessanti sono alcuni spunti avanzati dallo European Policy Center (EPC) in occasione degli scontri nel Nagorno-Karabakh del 2016 e facilmente attualizzabili. Il think tank chiede una maggiore incisività della politica diplomatica europea, attraverso:
- l’inclusione del conflitto nel dialogo con Armenia e Azerbaijan, questione spesso aggirata in favore di accordi di cooperazione più pratici e perseguibili, rivelatisi scorciatoie inutili;
- il rafforzamento delle capacità di osservazione militare tramite la nomina di ufficiali di collegamento nelle delegazioni di Baku e Erevan, superando così l’ambiguità delle fonti e della narrazione degli eventi [su cui lo stesso Borrell ha ammesso che “l’Europa non ha informazioni dettagliate“, nda];
- il sostegno rinnovato al Partenariato europeo per la risoluzione pacifica del conflitto sul Nagorno-Karabakh (EPNK);
- l’uniformità delle posizioni degli Stati membri che, secondo EPC, condividono una base comune, ma piuttosto ambigua, a causa dei differenti rapporti bilaterali con Azerbaijan (economico-commerciali) e Armenia (religioso-culturali).
In conclusione, una posizione più chiara e articolata è quella che, secondo gli analisti, renderebbe l’operato UE più tangibile ed efficace.
I vantaggi di Mosca
I limiti di Bruxelles evidenziano ed aumentano i vantaggi della Russia in questi contesti. La chiara concezione delle aree di influenza, attuali o ereditate, guida gran parte delle manovre estere del Cremlino e le realtà de facto sorte dopo il collasso sovietico sono delle notevoli leve geopolitiche per Mosca, degli insidiosi focolai d’instabilità ai confini dell’Europa, potenziali spine nel fianco per UE e NATO. Questi scenari mostrano chiaramente il contrasto tra le strategie e i limiti europei prima menzionati e gli interessi russi: ad ogni partner orientale dell’UE (Georgia, Ucraina, Moldavia, Armenia, Azerbaijan) corrisponde un’istituzione de facto più o meno connessa a Mosca (Abkhazia, Ossezia del Sud, Donbass, Transnistria, Artsakh/Nagorno-Karabakh), che rappresenta un fermo ostacolo all’avanzamento della cooperazione e dell’integrazione europea di queste regioni.
Il vantaggio di Mosca è dato, inoltre, dalla vicinanza storica e geografica con molte di queste entità, nonché da un’estrema dipendenza economica e militare, che determina l’esistenza stessa delle istituzioni autoproclamatesi indipendenti. E se il Nagorno-Karabakh non rientra esplicitamente in questa categoria, trattandosi di un conflitto inter-caucasico in cui Mosca non è direttamente coinvolta, forti sono i vincoli che legano il Cremlino con il garante della repubblica separatista, l’Armenia, fondamentalmente dipendente da Mosca.
I fattori a favore della Russia sono, dunque, molteplici. Il pragmatismo del Cremlino in questo ambito si esplicita in maniera multi-vettoriale, sia nei fondamenti teorici dell’azione (storia, cultura, geografia), sia nella pratica (economia, difesa), dando a Mosca indiscussi, enormi spazi di manovra e ampi margini di potere contrattuale rispetto all’Europa.
Status quo e dinamismo
In questo scenario, si conferma la distanza tra una Russia predominante in queste situazioni conflittuali, interessata allo strategico status quo attuale e un’Europa che necessita di nuove strategie e un maggior dinamismo nel confronto con queste realtà de facto.
Secondo l’esperto Thomas de Waal, l’abbandono di posizioni rigide e inefficaci sarebbe fondamentale per Bruxelles al fine di trovare nuove forme di interazione, pragmatica e su base negoziale. Dello stesso avviso Giorgio Comai di OBC, per il quale l’UE dovrebbe dunque “aggiornare la propria agenda” ed iniziare a rapportarsi gradualmente a questi soggetti, de facto ma esistenti, che per la stessa natura dei frozen conflicts sono destinati a perdurare. Riconoscendo l’ormai compiuta realizzazione dello state building in questi territori, Bruxelles deve rispondere con un impegno significativo, certamente in percorsi lunghi e difficoltosi, ma da cui l’Europa non può escludersi.
Nel Nagorno-Karabakh si conferma un’Europa “a due distanze”: vicina nella stabilità, attiva in progetti, mediazione e investimenti; lontana nel conflitto, incapace (o inadatta) di giocare un ruolo efficace nella sua risoluzione.