- Perché il conflitto è scoppiato proprio adesso? C’entrano qualcosa le elezioni presidenziali dello scorso aprile, che hanno visto la presa del potere di Arayik Harutyunyan? O dobbiamo fermarci alla lettura dell’attuale congiuntura politico-economica?
Innanzitutto è un conflitto che non è mai finito, un conflitto protratto, che erroneamente era stato definito congelato. Questa ultima deflagrazione era stata preceduta dagli scontri a luglio scorso, che sono stati i più violenti dal 2016. L’irrigidimento delle due parti nel corso degli anni ha reso impossibile ogni soluzione negoziale, lasciando quindi aperta la via militare. Come del resto ha annunciato programmaticamente Aliyev in un discorso il 6 luglio, criticando i pilastri del Gruppo di Minsk: il fallimento dei negoziati ha come conseguenza il ricorso alla guerra per risolvere la questione territoriale.
Da un punto di vista politico Aliyev non poteva cogliere un momento più opportuno, sfruttando una serie di fattori che configurano la condizione ottimale per un intervento militare. Come è stato osservato da diversi analisti (tra cui anche De Waal) le previsioni economiche legate alla riduzione del prezzo del greggio non avrebbero consentito investimenti nell’apparato bellico (come negli anni precedenti). Attendere oltre avrebbe fatto perdere molto del vantaggio strategico capitalizzato. Vi è inoltre il fattore pandemia, che ha posto il governo di Baku sotto stress e ha anche causato a marzo la partenza degli osservatori OSCE.
Ma il fattore chiave di questa situazione è stato il supporto militare e politico dalla Turchia. L’Azerbaigian ha protestato in varie sedi istituzionali per le elezioni che si sono svolte nell’autoproclamata Repubblica di Artsakh, ma è una protesta che trova poca risonanza nell’Ue, che non si pronuncia sulle elezioni di Stati che non riconosce (lo stesso vale per la Repubblica Turca di Cipro Nord, sulle cui elezioni Aliyev non ha mai avuto da eccepire). Le elezioni che si sono svolte invece in Azerbaigian nel febbraio scorso hanno segnato un notevole peggioramento nel rispetto degli standard di trasparenza e libertà, suscitando questa volta anche perplessità e contestazioni da parte dei cittadini (come testifica il rapporto degli osservatori OSCE). Aliyev aveva quindi anche urgenza di rafforzare il consenso e il suo potere attraverso una impresa di grande unità nazionale ed emozionale. E ci è riuscito.
- Pashinyan, arrivato al potere con la rivoluzione di velluto, sembrava promettere una svolta. C’era da aspettarsi un simile epilogo? Quali sono le responsabilità armene, restando agli ultimi anni?
Le responsabilità armene per la verità risalgono a tutti i decenni passati, perché non si può pensare che una situazione di irregolarità internazionale con un passato di pulizia etnica (reciproca) si aggiusti prolungando indefinitamente uno status quo che è fonte di contrasto e instabilità regionale e soprattutto delle pulizie etniche che si ripetono distanziate nella storia. L’errore di Pashinyan è di aver proseguito questo paradigma che di fatto non aveva il supporto internazionale e militare necessario. La classe dirigente a Erevan è ancora troppo legata all’esperienza e alla lotta indipendentista degli anni Novanta: la maggior parte di loro, come tantissimi armeni, è composta da veterani di guerra. Ma bisogna capire che la guerra è il passato e può essere il futuro, se nel presente non si avanzano proposte di pace concrete. Non vi sono stati passi armeni per la restituzione dei distretti occupati, anche se il Gruppo di Minsk da anni spinge in questa direzione in adempimento dei principi concordati a Madrid nel 2008. Pensare che un avvicinamento politico e ideologico alle democrazie occidentali e all’UE fosse un investimento in sicurezza è stato un errore strategico compiuto da Pashinyan.
Su questo punto è possibile criticare anche l’UE, per la sua mancanza di deterrenza e hard power, ma freddamente Pashinyan avrebbe dovuto ponderare bene gli scenari futuri e capire che il legame – peraltro storico – con la Russia è di fondamentale importanza con l’Armenia, e che non può essere alternativo a una proiezione geopolitica dell’Armena nell’Europa occidentale o nell’atlantismo. Considerando ciò e consapevole di non avere forze e alleanze per difendere quello che era stato conquistato 26 anni fa, Pashinyan avrebbe dovuto almeno proporre nei primi mesi dopo il suo insediamento di cedere parte dei distretti occupati (al di fuori del Nagorno-Karabakh) in cambio di una stabilizzazione delle relazioni, e avviare future trattative. Questo avrebbe costituito una svolta nel rapporto di fiducia tra Armenia e Azerbaigian, irrimediabilmente compromesso.
- Andiamo in Azerbaigian. Cosa spera di ottenere Aliyev? La conquista è una storia, la pacificazione è un’altra, e nessuna delle due comunque sembra all’orizzonte.
Come ho accennato, le ultime elezioni di febbraio – nonostante le irregolarità, la campagna sbilanciatissima e l’assenza delle opposizioni sui media– non sono state un successo per la popolarità di Aliyev. A ciò si aggiungono le contingenze economiche e la pandemia. Chi esercita il potere in forma autocratica ha bisogno periodicamente, e a volte con una certa frequenza, di rinsaldare il consenso popolare sulla sua persona. Un’impresa nazionalistica e militare è quanto di meglio possa trovarsi per questa occorrenza. Inoltre, si tratta dell’impresa nazionale par excellence, che assume toni epici e si contrappone alle “ingiuste pretese armene” per ridare dignità al popolo azerbaigiano. Questo lo ha già ottenuto, come praticamente anche la vittoria militare sul campo e diversi territori conquistati, i cui nomi sciorina meticolosamente in televisione. E va avanti. Bombardando Stepanakert, Aliyev ha indotto la stragrande maggioranza degli abitanti del Nagorno-Karabakh a lasciare le loro case. Potranno farvi ritorno? Lo scenario di una pulizia etnica, o quantomeno il suo effetto concreto, è una ferita immensa per gli equilibri futuri di tutta la regione, che sconvolge la vita di oltre 150.000 persone. Ma la situazione opposta era avvenuta nella guerra precedente degli anni Novanta, dove molti più azerbaigiani erano dovuti fuggire dalle zone tra il Nagorno-Karabakh e l’Armenia, oltre che dal Karabakh stesso. Ora Aliyev può restituire le terre riconquistate a quei profughi e ai loro figli.
- Quanto influiscono i grandi manovratori in questa guerra? Sono spettatori attivi o passivi? E davvero la Russia ha le mani più legate della Turchia?
Il livello di tensione e diffidenza reciproca era tale che è bastato poco per innescare il conflitto. Il game changer della situazione è stato certamente Erdoğan, la cui intenzionalità è ricostruibile dai vari contatti tra Baku e Ankara prima della crisi di luglio e successivamente dalle esercitazioni militari congiunte dei due eserciti alleati. Nonostante questo, sia la Russia che l’Europa sembrano essere state prese alla sprovvista dall’esplosione di questa guerra, peraltro annunciata e prevista almeno dal mese di luglio. Ovviamente vi è anche il grande problema della pandemia, con l’attuale seconda ondata che limita moltissimo diversi tipi di intervento in ambito di politica estera, soprattutto il dispiegamento di forze di peacekeeping. La comunità internazionale, inoltre, si è arroccata nel processo di Minsk, che reitera le sue dichiarazioni prese di comune accordo con le parti, che poi non vengono rispettate. Ma al momento non è stato proposto un modello alternativo che apra le porte a negoziati veri.
Lavrov aveva dichiarato la disponibilità della Russia a occuparsi su mandato internazionale di un meccanismo di verifica del cessate il fuoco. Russia e Turchia si trovano con interessi contrapposti su più teatri, dal Caucaso, alla Siria, alla Libia, al Mediterraneo orientale, ed è probabile che temporeggino alternando le priorità su dove intervenire e attendendo che la situazione militare sul campo subisca variazioni tali (gravi o meno gravi) da rendere più conveniente usare la diplomazia che le armi. Quindi penso che entrambe giocheranno la carta dell’imprevedibilità a loro favore. Per il momento sia Aliyev che Erdoğan vanno avanti militarmente senza la minima disponibilità alle trattative, che non sia la capitolazione dei pochi armeni che sono rimasti a difendere il Nagorno-Karabakh.
- Quanto ha influito il TAP nel (non) posizionamento diplomatico italiano?
- La domanda sui futuri sviluppi della situazione è sempre la più scontata, ma in qualche modo è inevitabile. Dopo il fallimento del cessate il fuoco del 10 ottobre, che speranze abbiamo di una ricomposizione sul breve termine del conflitto? E quali potrebbero essere gli ingredienti di una pace sostanziale, se non duratura? Insomma, a cosa dovrebbero rinunciare i contendenti?
Dovrebbero rinunciare all’odio reciproco. Ma non è una cosa affatto facile, poiché è un odio abbastanza antico che è esploso all’inizio del XX secolo e si è mantenuto sopito in epoca sovietica, dove le leadership comuniste armene e azere erano costantemente in conflitto, per poi sfogarsi a partire dalla fine degli anni Ottanta in massacri, espulsioni, guerra e pulizia etnica. Gli armeni dovrebbero rinunciare alla loro visione millenaristica che identifica tout court la loro presenza culturale, innegabile, sul territorio da tantissimo tempo con la pretesa di costruire una entità statuale dovunque siano stati. Gli armeni hanno vissuto e avuto anche Stati in un’area vastissima che va da Costantinopoli a Teheran, dal Caucaso alla Cilicia e al Levante, dalla Russia all’Europa e infine agli Stati Uniti. La diaspora fa parte dell’identità del popolo armeno come anche la terribile sofferenza, il Grande Male, che ha subito nel 1915 e il cui mancato riconoscimento da parte di chi lo organizzò è un ostacolo alla costruzione di una convivenza pacifica e stabile oggi. Da parte azerbaigiana, similmente, andrebbero riconsiderati i vari episodi storici, senza utilizzare una memoria selettiva, ma rapportando i massacri subiti con quelli inferti e capendo le loro interconnessioni.
Come hanno esemplificato alcune best practices, la riconciliazione è un processo indotto, non spontaneo, favorito da un approccio non giudicante del passato. Questo processo però non può essere intrapreso se non attraverso il coinvolgimento delle società civili: perché è a livello di società civili che poi si creano le condizioni per la convivenza pacifica, che sia all’interno di uno Stato o tra più Stati nella regione. Mi viene in mente in proposito lo sforzo immane, e purtroppo non ripagato, dello scrittore azerbaigiano Akram Aylisli, che scrisse nel 2012 il bellissimo romanzo Sogni di pietra, in cui rievoca la convivenza prospera e gioiosa di armeni e azeri e altre etnie nel Naxchivan prima del 1918. Il libro ripropone quasi in chiave epica le vicende interculturali caucasiche, come se fosse possibile un sogno al riparo dai nazionalismi che secondo Aylisli hanno intossicato le vite di azerbaigiani e armeni negli ultimi 30 anni. L’emblema di questa convivenza era la città di Shusha nel XIX secolo, centro fiorente di traffici e cultura sulla via della seta. Forse le società civili possono capire meglio delle leadership politiche la ricchezza umana ed economica che viene persa a causa della guerra e dell’opposizione frontale dei nazionalismi.