Fedele non a Trump, ma alla narrazione di un’America nel caos, il presidente russo vuole allungare il più possibile l’incertezza post-elettorale di Washington. Ma la transizione volge al termine, e una nuova era grigia incombe su Mosca.
Se avesse potuto determinare l’esito delle elezioni statunitensi, Vladimir Putin avrebbe scelto esattamente ciò che si è verificato nelle ultime settimane. Anzi, a dire il vero solo nei giorni immediatamente successivi all’election day del 3 novembre. Ovvero non la vittoria di Trump, né tantomeno quella di Biden, ma il trionfo dell’incertezza. Condizione esistenziale esattamente inversa – e avversa – alla stabilità sposata da Mosca nell’ultimo ventennio.
Un’elezione contestata, il fallimento della transizione, persino la possibilità di brogli sono infatti musica per le orecchie di chi è sempre stato accusato di scarsa trasparenza e adesso può ribaltare il tavolo senza batter ciglio. Nella malcelata soddisfazione delle parole di Maria Zakharova, portavoce del ministero degli Esteri, il sistema elettorale Usa sarebbe “arcaico”, privo di “meccanismi regolatori”. Il riferimento implicito è (anche) all’assenza di un ministero degli Interni che dichiari il vincitore, sostituito in tale ruolo dai media – dettaglio che, immaginiamo, inorridisce e al tempo stesso diverte Putin.
Per questo non c’è da stupirsi se le congratulazioni del Cremlino per Biden tardano molto ad arrivare. In un certo senso, Putin sembra avvolto in un sogno da cui non vuole ancora svegliarsi: quello di un’America profondamente divisa, sull’orlo di un’insanabile guerra civile tra le sue due anime. Spettro che davvero si è aggirato a Washington nell’immediato post-voto, ma che oggi appare lontanissimo da una realtà in via di normalizzazione.
Nel riconoscere la vittoria di Biden, il presidente russo potrebbe essere preceduto persino da Trump, che nelle ultime 24 ore ha compiuto i primi veri passi verso la transizione dei poteri. E se è vero che il tycoon newyorchese era ancora preferito da Putin rispetto all’ex vice di Obama, nonostante sotto la sua presidenza i rapporti con Mosca siano precipitati ancora più in basso che nei precedenti otto anni, è anche vero che non tutto l’establishment del Cremlino la pensava allo stesso modo.
A conti fatti, la differenza tra i due candidati sul tema dei rapporti con la Russia non era poi così marcata, e ha posto in essere dilemmi inestricabili: meglio un “amico” inaffidabile o un nemico sicuro? Risposta non scontata. Mosca vuole (voleva) ricucire con l’Occidente ma anche certezze geopolitiche: le giravolte trumpiane – pur facilmente interpretabili come effetti di una guerra intestina tra apparati – la irritavano facilmente, perché la esponevano a una passività strategica pressoché ridicola per una superpotenza.
La migliore risposta al dilemma l’avevano data i cittadini russi, che interpellati dal Levada Center sulla tornata elettorale oltreoceano avevano ostentato una certa indifferenza verso i suoi risultati: per il 65% di essi “не имеет значения”, qualunque esito sarebbe stato irrilevante per la Russia, mentre solo il 25% si era espresso a favore di un candidato (il 16% per Trump e il 9% per Biden). Vox populi tra le più sagge al mondo, nonostante un buon terzo dei rispondenti non avesse “mai sentito parlar prima” della campagna presidenziale Usa.
L’establishment politico, che non poteva permettersi tale lusso, si è mantenuto su posizioni comunque non dissimili tifando “asteroide”, ovvero l’implosione del proprio massimo antagonista. Obiettivo apparentemente sfiorato senza dover sparare un colpo della propria artiglieria. Né la famigerata disinformazione made in Russia, né qualche eventuale hacker incaricato di frugare tra le email della Clinton di turno è riuscito a monopolizzare l’attenzione mediatica a stelle e strisce. Stavolta, più di Gerasimov, a venire in soccorso di Mosca poteva essere Sun Tzu.
Ma la speranza di un conflitto interno permanente è andata dissolvendosi col passare delle settimane. La retorica sull’instabilità strutturale del sistema politico di Washington, fomentata dalle ultime parole di Putin[1] e dalle opinioni della Pamfilova[2], ha sempre più il sapore di wishful thinking. Lo spettacolo dunque è finito, e la Russia deve tornare a fare i conti con la realtà. Che si preannuncia molto dura: nonostante una certa conoscenza di Mosca (Biden l’ha visitata ufficialmente più volte, fin dal 1973) un vero feeling non è mai nato. Il nuovo inquilino della Casa Bianca non ha scorto un’anima negli occhi di Putin. E difficilmente avrà la voglia, o la forza, di convincere i suoi apparati della necessità di riconciliarsi in via definitiva con la Russia.
[1] “Lavoreremo con chiunque abbia la fiducia del popolo americano. Ma quella fiducia può essere data solo a un candidato la cui vittoria è stata riconosciuta dal partito avversario, o dopo che i risultati sono stati confermati in modo legittimo e legale”.
[2] Secondo Ella Pamfilova, presidente della Commissione elettorale centrale russa, il voto per corrispondenza apre “un immenso spazio per possibili falsificazioni” e per tale scopo ne avrebbe vietato la pratica in Russia, nonostante le leggi federali teoricamente lo consentano.