La presenza dei russi all’interno delle tre repubbliche baltiche è sicuramente in forte calo, eppure gioca ancora un ruolo chiave nelle relazioni tra questi Paesi e la Federazione Russa. Cosa significa essere russi in Estonia, Lettonia e Lituania? Un viaggio tra le politiche di discriminazione e (dis)informazione.
Al confine orientale estone due città si specchiano nello stesso fiume, unite dal Ponte dell’amicizia: una è l’estone Narva, l’altra è la russa Ivangorod. Partendo dal centro di Ivangorod e attraversando il fatidico ponte oltre la sponda estone, si scorge una statua di Lenin e si sentono dialoghi interamente in lingua russa. Questo perché Narva ed Ivangorod oggi non sono più città sorelle, ma per tempo lo sono state e ancora oggi rimangono legate inscindibilmente. Narva, infatti, è la città con la maggiore presenza di russi in Europa, con una percentuale di essi oltre il 90% della propria popolazione.
Ne è passata di acqua sotto quel ponte dal divorzio tra i due centri abitati avvenuto nel 1991, quando Ivangorod fu inserita all’interno dell’Oblast’ di Leningrado. Narva, invece, con l’indipendenza dell’Estonia divenne parte della repubblica baltica non senza rimpianti. Alcune istanze separatiste, infatti, si palesarono in particolare nel 1993 con un referendum per l’autonomia della città, poi annullato per presunti brogli elettorali.
Oggi in Estonia il 24,8% della popolazione è russa, eppure l’esempio più lampante della presenza di tale minoranza nei Baltici resta sicuramente quello della Lettonia, dove la percentuale di russi ammonta ad oltre un quarto dell’intera popolazione. In Lituania parliamo invece di percentuali molto più basse che si aggirano intorno al 6%, più meno al pari della minoranza polacca.
Uno dei quesiti fondamentali che i Baltici si sono posti post-indipendenza riguarda proprio l’integrazione della minoranza russa all’interno del tessuto sociale dei propri Paesi. In questo caso, la Lituania si è mostrata più benevolente rispetto ai propri vicini di casa concedendo alle minoranze retaggio dell’ex Unione sovietica la propria cittadinanza[1].
Cosa significa essere figli di nessuno e vivere senza essere riconosciuti da alcuna madrepatria? Lo sanno bene i russi “alieni”, che ancora oggi posseggono i passaporti grigi per non-cittadini e non hanno accesso al diritto di voto o al pubblico impiego. Ad inizio luglio di quest’anno in Estonia si contavano poco meno di 70.000 non-cittadini, la maggior parte dei quali di etnia russa[2]. In questo caso, in realtà, sarebbe meglio parlare di politiche di assimilazione piuttosto che di integrazione.
Infatti, Lettonia ed Estonia hanno adottato una linea dura nei confronti dei russi non concedendo loro la cittadinanza nel momento della transizione dall’Unione sovietica all’indipendenza (eccezion fatta per i russi residenti nell’area già da prima del 1940, anno dell’occupazione sovietica)[3]. Una grande penalizzazione per coloro che a Riga vivono da oltre 30 anni o che a Tartu sono persino nati. Soltanto lo scorso anno la Lettonia ha allentato la presa nei confronti di coloro che sono nati nel Paese pur essendo figli di apolidi, garantendo finalmente loro il diritto alla cittadinanza lettone. Lo stesso è avvenuto solo nel gennaio di quest’anno in Estonia. Si è trattato dunque di enormi passi in avanti per porre fine all’apolidia infantile, dopo varie pressioni da parte dell’UE e del Consiglio d’Europa[4].
Se è vero che la lingua ricopre un ruolo chiave all’interno della costruzione di una nazione, sembra proprio che i Paesi baltici abbiano preso questo concetto alla lettera e che abbiano cercato di mettere a tacere i propri russofoni in tutti i sensi. In Lettonia nel 2012 si è tenuto un referendum, con esito negativo, per introdurre il russo come seconda lingua nazionale. Pochi anni più tardi, nel 2018, su iniziativa del partito nazionalista Alleanza Nazionale, è stata introdotta una legge per eliminare la lingua russa dal processo di educazione e di istruzione entro il 2021, dato che ancora oggi esistono varie scuole in cui il programma è insegnato interamente in russo. Sempre lo stesso anno la Lettonia ha vietato l’insegnamento di materie in lingue non riconosciute come ufficiali all’interno dell’UE, russo naturalmente incluso. Scatenando non solo le ire della propria minoranza, ma anche quelle del Cremlino, che ha definito il provvedimento “un atto di discriminazione e di assimilazione forzata”[5].
C’è poi da dire che, fin dall’indipendenza delle repubbliche baltiche si è man mano creato un profondo e diffuso sentimento antirusso basato da un lato sull’astio di un passato troppo vicino e spiacevole e, dall’altro, su una paura ancora vivissima di una rinnovata influenza e ingerenza russa nell’area baltica. Non a caso, infatti, in seguito agli avvenimenti ucraini del 2014, Narva è tornata a far parlare di sé come un campanello d’allarme, tanto che gli addetti ai lavori hanno iniziato a descrivere il cosiddetto “scenario Narva” all’interno del quale la città sarebbe una nuova Crimea[6]. Lo stesso scenario è stato pensato anche per la città di Daugavpils, rinominata da molti “la Crimea lettone”. La vicinanza alla Russia (basti pensare che San Pietroburgo si trova molto più vicina a Tallinn che non a Mosca), le rilevanti minoranze russe e la storia dei tre Paesi hanno portato a pensare all’eventualità che la prossima Crimea si trovi proprio in una delle tre repubbliche baltiche.
Una congettura attendibile? La percezione dei Baltici rispetto al grande orso russo non è del tutto infondata, soprattutto se si pensa alle diverse e ripetute violazioni dello spazio aereo, all’insicurezza energetica o alle campagne di disinformazione da parte del Cremlino. Un paragone con l’Ucraina appare tuttavia alquanto bizzarro per certi versi, soprattutto se si confronta il grado di integrazione dei Baltici con il mondo occidentale. Mettere direttamente piede all’interno di Paesi membri a pieno titolo dell’UE e della NATO (con possibilità di attivazione dell’Articolo 5 del Patto Atlantico) sarebbe una mossa quantomeno azzardata da parte di Mosca.
Nonostante ciò, il Cremlino sa bene come usare i propri compatrioti residenti nei Baltici a suo favore. Nel 2014 ha infatti pensato bene di varare una legge per cui i madrelingua russi residenti al di fuori della Federazione hanno la possibilità di richiedere la cittadinanza russa. La lingua diventa così allo stesso tempo uno strumento e un’arma e fa sì che la Russia possa rivendicare numerosi gruppi etnici al di fuori del proprio territorio.
La partita con i russi nei Baltici si gioca soprattutto nel campo dell’informazione, o “disinformazione”, tramite i social e la stampa. Scopo di Mosca, quello di garantire una serie di fonti alternative a quelle nazionali per le minoranze russe. Non a caso, le politiche discriminatorie e di esclusione nei confronti dei russi nei Baltici vengono continuamente rimarcate dai media russi facendo riferimento alle continue violazioni dei diritti umani per animare nuove polemiche.
Così come farebbe un padre, il Cremlino tiene d’occhio e si prende cura di tutti i propri figli all’interno del Russkij Mir, ergendosi a difesa delle comunità russe all’estero. Un po’ come tra Narva e Ivangorod, il legame tra le minoranze russe nell’area baltica e la Federazione Russa esiste e persiste ancora oggi, forse più forte che mai.
[1] https://warsawinstitute.org/hostile-propaganda-affects-lithuanian-society/
[2] https://www.lrt.lt/en/news-in-english/19/1196438/estonia-s-mainly-russian-stateless-population-continues-to-decline
[3] Law: On the Status of those Former U.S.S.R. Citizens who do not have the Citizenship of Latvia or that of any Other State
[4] https://warsawinstitute.org/latvia-softens-naturalisation-policy-children-stateless-persons-receive-passports/
[5] https://www.mid.ru/en/web/guest/kommentarii_predstavitelya/-/asset_publisher/MCZ7HQuMdqBY/content/id/3139695
[6] https://www.theatlantic.com/international/archive/2019/01/narva-scenario-nato-conflict-russia-estonia/581089/