La politica statunitense verso l’Ucraina è rimasta imperniata sulle stesse priorità dal 1991. La presidenza Obama ha comportato un salto di qualità nel solco di questo approccio, mentre quella Trump ha segnato la politicizzazione mediatica del rapporto con il Paese. La presidenza Biden potrebbe rendere più efficace l’impegno statunitense, all’interno degli obiettivi e dei binari tradizionali.
Nell’estate del 2014 il doppio effetto delle sanzioni europee e del crollo del prezzo del petrolio comportava la drastica svalutazione del rublo russo, che da valori vicini ai 50 rubli/€ si sarebbe attestato nella forbice tra i 65 e i 92 rubli che conosciamo oggi. Questo crollo secco del valore nominale dell’economia russa nell’estate del 2014 significò due cose: da un lato, maggiori costi economici e politici per proseguire un’eventuale annessione dell’Ucraina orientale; dall’altro il segnale forte e chiaro ai leader della riva sinistra del Dnepr che i Paesi occidentali erano in grado di impegnarsi in modo sostanziale contro l’avanzata russa.
All’indomani della cacciata di Janukovych, dell’annessione russa della Crimea e mentre cortei opposti ancora scuotevano e insanguinavano il Paese, alcuni leader chiave dell’Ucraina orientale russofona si trovarono a dover fare una scelta: agevolare l’azione delle forze che da entrambi i lati del confine spingevano per l’annessione alla Russia, oppure combatterle, schierandosi con Kiev. Mentre si intensificavano gli scontri che nel Donbass avrebbero portato alla guerra aperta, uomini come Hennadiy Kernes, oligarca del centro nevralgico di Kharkiv, oppure Ihor Kolomoyjskyj, uomo forte di Dnipropetrovsk, ebbero più di un’esitazione prima di schierarsi definitivamente contro l’intervento russo.
Se la scelta di questi uomini fu decisiva per contenere l’intervento russo al solo Donbass è perché l’amministrazione Obama, in collaborazione con Bruxelles, alzò in modo decisivo i costi dell’azione di Mosca, dimostrando alle élite locali che l’Ovest era pronto a fare passi sostanziali a difesa di Kiev.
Gli eventi del 2014 hanno rappresentato un salto di qualità nel contesto di una politica americana verso l’Ucraina che è rimasta sostanzialmente invariata dal 1991 ad oggi, fondata sul supporto alle riforme, sull’istituzionalizzazione della governance democratica e della rule of law e sulla progressiva integrazione nelle strutture promosse dall’asse euroatlantico.
Cosa è cambiato con Trump?
A livello di politica concreta molto poco, è cambiata invece molto la politicizzazione mediatica dell’Ucraina nel dibattito americano.
In termini di policy l’approccio americano rimane infatti legato alle priorità tradizionali, che dopo il 2014 hanno visto un incremento in termini di opportunità e risorse. Il cardine dell’influenza americana – e più in generale occidentale – resta il supporto alle riforme verso un’economia di mercato e istituzioni di tipo democratico. Questo sforzo, imperniato sul ruolo del Fondo Monetario Internazionale, ha determinato l’espansione negli anni recenti di questa istituzione, che presta somme di denaro vitali per il bilancio pubblico ucraino. I finanziamenti del FMI seguono un principio di condizionalità, e sono vincolati agli effettivi progressi compiuti dal Paese nella liberalizzazione del mercato interno e nell’adattamento alle istituzioni economiche e politiche occidentali.
L’influenza del FMI è inoltre rafforzata dal fatto che negli ultimi anni questa istituzione sia diventata anche il punto di riferimento tanto per i donatori che gli investitori occidentali sia pubblici che privati. La ragione per cui il rinnovo o l’ottenimento dei prestiti del Fondo Monetario sia diventato un argomento ricorrente nel dibattito ucraino non si limita infatti all’importanza che questi prestiti hanno in sé, ma che dall’erogazione o meno di questi dipende il flusso delle donazioni e degli investimenti occidentali nel suo complesso.
Attorno al cardine delle riforme istituzionali, che sono inoltre profondamente legate all’implementazione dell’Accordo di associazione con l’Unione Europea, gli Stati Uniti incoraggiano la cooperazione in diversi settori economici, a cominciare per esempio da quello dell’energia, promuovendo lo scambio di informazioni e un processo di armonizzazione delle regolamentazioni volto ad agevolare gli investimenti occidentali.
La terza priorità, cioè la progressiva integrazione in strutture come la NATO o l’UE, dipende invece sostanzialmente dal processo di riforma istituzionale e dalla risoluzione del conflitto con la Russia. A questo si collega una quarta priorità, emersa nel 2014, che è la salvaguardia dell’unità territoriale ucraina e che si traduce nei fatti nel supporto logistico e militare alle forze di Kiev.
Se questa politica è continuata tanto durante l’amministrazione Obama quanto durante quella Trump, quello che è cambiato dopo l’elezione di quest’ultimo è invece l’esposizione mediatica del Paese, per due ragioni. La prima sono le accuse di illegittimità mosse a Trump, la cui elezione sarebbe stata favorita dall’attività sui social network di alcune aziende che non sono estranee agli ambienti del potere russo. Il rapporto con la Russia è diventato così una questione centrale per la politica interna americana, e con esso il rapporto con quei Paesi che si oppongono all’influenza del Cremlino.
Il secondo fattore che ha cambiato il significato del rapporto con l’Ucraina per l’opinione pubblica americana è il forte coinvolgimento dello sfidante democratico Biden nei rapporti con Kiev durante la presidenza Obama, unito agli affari che qui ha condotto il figlio. Questo collegamento ha fatto dell’Ucraina una specie di campo di battaglia per la campagna elettorale americana, con il presidente uscente impegnato a trovare prove compromettenti di malversazione dell’avversario, finendo per essere accusato di avere esercitato pressioni indebite ai danni di un governo di un Paese alleato.
Cosa può cambiare con Biden?
È improbabile che le priorità decennali della politica americana verso l’Ucraina cambino con l’amministrazione Biden, così come è difficile che le scelte di politica estera cessino di essere influenzate dal particolare significato che l’opposizione alla Russia ha preso ad avere per la politica interna americana.
Ciò che potrebbe cambiare con il nuovo presidente è invece la qualità dell’impegno americano in Ucraina. Il nuovo presidente ha un’esperienza diretta del Paese, del quale si è occupato durante l’amministrazione Obama. A differenza di Trump, che prima di diventare presidente aveva avuto a che fare con l’area post-sovietica solo per turismo, Joe Biden si occupa di quest’area del mondo da molti decenni: all’indomani dell’elezione, nei social network russofoni hanno avuto grande diffusione le foto del neopresidente in compagnia dei leader sovietici, che incontrò più volte durante le proprie missioni diplomatiche a Mosca negli anni ’80.
Sul lungo periodo, la cosa cruciale per il posizionamento dell’Ucraina è il tipo di istituzioni politiche ed economiche di cui si doterà: questa scelta dipende dall’andamento delle riforme, promesse da Kiev ma continuamente ostacolate sia da fattori di contesto come l’attuale organizzazione dello Stato e una cultura molto permeabile all’informalità, sia da attori politici contrari alle riforme, tra i quali spiccano gli oligarchi.
Se per Trump l’Ucraina era terra di conquista, un’area cuscinetto nella quale cercare prove compromettenti contro i propri avversari interni, Biden ha invece quella conoscenza delle leve del potere ucraino che potrebbe rendere più forte l’influenza statunitense sulle riforme interne del Paese.
Se da un lato, infatti, Biden conosce bene gli attori chiave della politica ucraina, è anche improbabile che non si sia accorto che non sono pochi gli oligarchi che hanno interessi economici, anche rilevanti, negli Stati Uniti stessi. Uno di questi è lo stesso Kolomojskyj, al centro di quel caso Privatbank attorno al quale si sono giocati in questi anni gli equilibri istituzionali del Paese.
Giulio Benedetti