40 sono i raggi del sole al centro della bandiera kirghisa, numero che simboleggia le tribù storiche del Paese. Una storia millenaria e travagliata, fattore comune ai vicini Stan dell’Asia centrale.
Dal Medioevo all’epoca moderna
I mongoli conquistarono l’area nel XIII secolo, distruggendo la cultura karakhanide e incentivando la migrazione di un gran numero di popoli nell’area, di ceppo turco, mongolo e tibetano. Con l’ascesa del Khanato di Kokand all’inizio del 1700, il Kirghizistan cadde sotto il suo dominio. Sottoposti a questa dominazione, i kirghisi furono esposti per la prima volta all’Islam. La diffusione del culto si manifestò tuttavia con tratti piuttosto superficiali. I kirghisi, avvezzi a uno stile di vita nomade con annesse credenze sciamaniche, continuarono a venerare elementi naturali (influenzati dal tengrismo pagano) fino all’inizio del XIX secolo. Ad aver maggior successo nell’area fu la variante islamica del sufismo, maggiormente prono a pratiche sincretiche. Durante questi secolidi storia l’area ha svolto un ruolo fondamentale come tappa per mercanti e carovane che viaggiavano lungo la Via della Seta. A metà dell’Ottocento l’Asia centrale si trovò con riluttanza partecipe nel “Grande Gioco” che contrappose la Russia imperiale e la Gran Bretagna, imperi in proiezione geopolitica. Sospesi tra l’incudine e il martello, i kirghisi finirono inevitabilmente nelle fauci dell’imperialismo russo.
Il dominio zarista
Dal 1867 al 1918, il territorio kirghiso divenne parte integrante del Turkestan, un governatorato dell’Impero russo. Negli ultimi decenni del XIX secolo, un gran numero di coloni slavi si trasferì sul territorio spinto dai tentativi di russificazione. Le oppressive politiche fondiarie e fiscali russe danneggiarono gravemente la cultura nomade locale, innescando una rivolta iniziata nel 1916 e diffusasi in tutto il territorio. La spietata repressione, inasprita dall’imposizione della leva militare, portò al massacro e al conseguente esilio di molti autoctoni. La resistenza ai russi continuò sporadicamente fino alla metà degli anni Venti, in quella che passerà alla storia come la ribellione dei Basmachi. Un’amalgama di tradizionalisti musulmani, banditi comuni e idealisti panturchi, i Basmachi inizialmente dilagarono in tutto il Turkestan inaugurando un periodo di breve indipendenza. All’inizio di quel decennio la rivolta minacciò il governo sovietico ma i bolscevichi, militarmente superiori, seppero abilmente sfruttare le divisioni e le rivalità all’interno del campo ribelle. Conclusa la guerra civile, il governo sovietico disinnescò la rivolta e spianò la strada all’incorporazione dell’area nell’Unione Sovietica.
La parentesi sovietica
Alla fine del conflitto il territorio del Kirghizistan divenne parte dell’Unione Sovietica, prima come Regione Autonoma Kara-Kyrghyz e come Repubblica del Kirghizistan nel 1936. La repubblica era considerata una delle meno sviluppate, politicamente ed economicamente. Il dominio sovietico significò per la piccola realtà investimenti e alfabetizzazione, ma portò con sé inevitabili risvolti negativi come lo stanziamento forzoso di popolazioni straniere che modificarono fortemente gli equilibri interetnici. La soppressione dell’Islam, nel corso delle violente persecuzioni antireligiose, impedì inoltre che si sviluppasse un collante nazionale, cosi come lo stanziamento di russi ed armeni (funzionari e quadri dirigenti) nelle principali città contribuì ad erigere una voragine di diffidenza fra le etnie a dispetto del mito della coesistenza propagandato dal regime. Sull’onda lunga delle liberalizzazioni promosse dalla perestrojka gorbacioviana, il Paese iniziò ad affrancarsi progressivamente dall’URSS e nelle elezioni presidenziali del 1990 il fisico Oskar Akayev, candidato di compromesso e di orientamento centrista, venne eletto presidente. Akayev e sostenitori incentivarono il risveglio nazionalista, indebolirono gli apparati e il controllo politico sulla repubblica dal Partito Comunista fino a dichiarare l’indipendenza nel 1991, per poi ottenere conferma elettorale lo stesso anno.
L’indipendenza e la Presidenza Akayev (1991-2005)
Sotto la presidenza Akayev, il Kirghizistan iniziò a sviluppare le prerogative di una democrazia moderna, inclusa una stampa libera, magistratura indipendente e un parlamento democraticamente eletto. Fin da subito il paese ha dovuto affrontare numerose sfide come il declino economico, aggravato dall’esodo russo. Inoltre, il governo di Akayev si macchiò fin da subito di abusi di potere e corruzione sistemica. La principale minaccia esterna del Paese venne però dalla continua infiltrazione di estremisti islamisti in transito dai confinanti Afghanistan e Uzbekistan. Nel 2001 il governo concesse alle forze statunitensi una base militare a Manas, nel nord del paese, per condurre operazioni contro i talebani in Afghanistan.
Posta sotto pressione Bishkek ha dovuto, da li a due anni, concedere anche ai russi una base aerea per ospitare una forza della Comunità di Stati Indipendenti. Dopo quindici anni al potere Akayev, di fronte alla promessa fatta di dimettersi alla scadenza del terzo mandato, dovette fare un passo indietro alle elezioni del 2005. La presenza come candidati dei figli del presidente, l’aumento dell’insoddisfazione popolare e il perdurare della fragilità di un economia eccessivamente dipendente dalle rimesse e dal clientelismo costituirono i principali motivi delle proteste che sarebbero esplose negli anni successivi.
Le due rivoluzioni
L’ambiguo risultato delle elezioni del 2005 diede vita a una serie di spontanee e partecipate manifestazioni. I kirghisi scesero in piazza denunciando l’autoritarismo presidenziale. I manifestanti si scontrarono con le forze di sicurezza e presero il controllo dei palazzi del potere, costringendo il presidente alle dimissioni e una precipitosa fuga. Al termine della crisi, Kurmanbek Bakiyev (ex quadro sovietico) vinse le elezioni presidenziali con l’89% dei voti. Candidatosi con una piattaforma che invocava la necessità di drastiche riforme strutturali, Bakiyev fece presto a rinnegare le promesse introducendo una nuova legge elettorale, fondando un partito personale (Ak Jol) per poi ottenere il controllo del parlamento nel 2007.
Nonostante i pieni poteri, Bakiyev non riuscì ad affrontare il perdurare della crisi economica, la corruzione endemica e l’instabilità diffusa. Il crescente dispotismo dell’ex rottamatore riusci nell’obiettivo di galvanizzare le opposizioni riunitisi in un unica piattaforma. Nel 2010, cogliendo di sorpresa anche la stessa opposizione, una rinnovata protesta popolare sfociò in una rivolta su scala nazionale con l’occupazione di edifici governativi, stazioni televisive e commissariati. Le sanguinose rappresaglie delle forze di sicurezza, costate la vita a un centinaio di civili, portarono ad una maggiore mobilitazione che costrinse all’esilio il riluttante presidente. La dissidente Roza Otunbayeva venne incaricata di formare un governo, guidare la compilazione di una nuova costituzione e indire nuove elezioni.
Le presidenze Atambayev e Jeenbekov
Nell’ottobre 2010, le prime elezioni parlamentari del Kirghizistan ai sensi della nuova costituzione, si svolsero senza violenze o gravi irregolarità, uno sviluppo salutato dagli osservatori intenzionali come un importante passo avanti per la democrazia. Almazbek Atambayev risultò vincitore ricevendo più del 60% dei voti. Fortemente intenzionato a innalzare il prestigio della nazione sul palcoscenico globale, Atambayev ha posto notevole importanza nell’ incentivare migliori relazioni con la Russia. Costruendo una “special relationship” con il russo Putin, ha portato il Kirghizistan nell’Unione Economica Euroasiatica e si è in diverse occasioni recato nella Federazione per incontrare l’omologo russo ricevendo da questi la promessa di investimenti nel settore energetico e infrastrutturale.
A legare Bishkek a Mosca è non solo la presenza di installazioni militari russe, ma anche la presenza sul territorio russo di decine di migliaia di lavoratori kirghisi che costituiscono un importante fonte di rimesse. Impossibilitato dal cercare una rielezione, Atambayev ha guidato la successione al potere di Sooronbai Jeenbekov (già primo ministro nel suo governo) eletto presidente nell’ottobre 2017. L’iniziale convergenza tra ex presidente e il delfino iniziò ad incrinarsi piuttosto precocemente di fronte ai tentativi di Jeenbekov di costruire un base di potere indipendente e la volontà del predecessore di tornare in auge. La decisione di Jeenbekov di epurare uomini vicini all’ex presidente in seno alle forze di sicurezza costituì il nadir di una promettente sinergia.
Le proteste di ottobre 2020 e l’ascesa di Sadyr Japarov
La faida tra i due uomini forti del paese ha plasmato il clima elettorale in vista delle elezioni parlamentari di ottobre 2020. Una serie di partiti hanno preso parte alla tornata su piattaforme drasticamente contrapposte. La vittoria dei partiti legali all’establishment, l’esclusione di una miriade di forze d’opposizione, l’accusa di brogli e fraudolenti accordi elettorali nonché il clima di forte scontento aggravato dall’incedere della pandemia, ha portato per l’ennesima volta decina di migliaia di manifestanti nelle piazze e all’occupazione del parlamento. Jeenbekov, visto l’alto stato di tensioni, ha rassegnato le dimissioni e al suo posto è subentrato il nazionalista Sadyr Japarov, liberato a furor di popolo dalla detenzione in seguito all’accusa di sovversione.
In seguito all’annuncio della convocazione del ciclo elettorale di gennaio Japarov ha preferito dimettersi per potersi candidare alla carica di presidente. Nel breve periodo, e per tutto il frangente temporale che lo hanno separato dalla tornata elettorale, Japarov ha iniziato a costruirsi una personale cerchia di fedelissimi, sostenendo la candidatura di alcuni di questi alcuni alle più alte cariche istituzionali in modo da poter aumentare le chance di ottenere un ampia vittoria. Come ampiamente previsto Japarov ha ottenuto circa 79% dei consensi e l’approvazione di un controverso referendum in grado di rafforzare il ruolo della presidenza e diminuire il potere del parlamento. Che la presidenza Japarov rappresenta l’inaugurazione di un governo autocratico pienamente coerente con il contesto centroasiatico è ancora presto per dirlo ma data la turbolenta storia del paese la risposta alla domanda, molto probabilmente, continuerà a rimanere nelle mani delle piazze e dell’opinione pubblica.