A sud del Kirghizistan si estende per 22.000 km² la valle del Fergana, una delle aree più fertili dell’Asia centrale, percorsa dal fiume Syr Daria. Questa regione ospita oggi 11 milioni di abitanti, distribuiti tra Uzbekistan orientale, Tagikistan settentrionale e Kirghizistan. Alle temperature fredde e rigide, tipiche dell’area, si contrappone un clima etnico-culturale e politico particolarmente rovente.
L’area del Fergana è da sempre teatro di scontri etnici, in particolare tra kirghisi e uzbeki, scontri, che in diverse occasioni, si sono trasformati in battaglie sanguinose e violente. Tracciare le origini di questa rivalità è particolarmente complesso tuttavia, partendo dalla storia più recente, potremmo attribuire un ruolo determinante alla spartizione della valle che organizzò Stalin.
Fino al XVII secolo infatti l’aerea apparteneva al Khanato islamico di Kokand e divenne una provincia dell’impero in seguito alla conquista russa. Durante il periodo dell’Unione Sovietica emerse l’esigenza di suddividerla, necessità che venne assecondata portando alla nascita delle tre realtà statali che oggi conosciamo. La frammentazione seguì una logica ben precisa: l’obiettivo infatti era evitare che uno dei tre Stati potesse prendere il sopravvento nell’area della valle e, in generale, in questa zona dell’Asia centrale, attraversata dai due grandi fiumi Syr Darya e l’Amu Darya. Questo portò a una suddivisione esasperata e totalmente estranea allo stanziamento territoriali dei diversi gruppi etnico-linguistici.
In Kirghizistan, questo puzzle etnico si è tradotto nelle rivendicazioni degli uzbeki, non solo culturali ma anche politiche. Sia kirghizi che uzbeki sono musulmani sunniti, ma i secondi spesso appartengono spesso a famiglie più agiate rispetto ai primi, pur contestando al governo centrale la loro scarsa rappresentanza politica. Questo clima di tensioni ha rappresentato terreno fertile per la diffusione del radicalismo islamico.
Nonostante sia un fenomeno poco conosciuto nella regione, il fondamentalismo islamico è sempre stato presente in Asia centrale. Tuttavia si può parlare di una vera e propria avanzata islamista solo dopo la fine del dominio sovietico, diffusione che è stata incoraggiata dal sopravvento dei Talebani in Afghanistan negli anni Novanta. In questa fase la valle del Fergana è diventata per gli islamisti la principale via di ingresso. La ragione è da ricercare sia nel complesso quadro politico-territoriale dell’area, già evidenziato, che nelle radici profondamente religiose delle popolazioni che la abitano.
Il primo gruppo a emergere è stato Ikhwan al-Muslimun, a cui hanno fatto seguito altri movimenti islamisti: Adolat, Baraka, Tauba e Islam Lashkarlari.
In seguito sono diventati attivi nella regione anche altri gruppi come Hizb ut-Tahrir (HT) e i suoi gruppi affiliati Akramiylar e Hizb un-Nusrat, così come Uzun Soqol, Nurcular, Tabligh Jamaat, Lashkar-i-Taiba, Hizballah, il Movimento islamico dell’Uzbekistan (IMU), il Movimento islamico del Turkestan orientale, il movimento islamico dell’Asia centrale (IMCA) e il gruppo della Jihad islamica (IJG).
Nonostante questi gruppi si differenzino tra di loro per metodi e strategie, sono tutti legati da un obiettivo comune: l’istituzione di uno Stato islamico.
Tra tutti emerge Hizb ut-Tahrir, movimento panislamico e fondamentalista, fondato nel 1953 sugli insegnamenti del suo leader Muhammad Taqi al-Din. La solidità strutturale e la coerenza ideologica che lo caratterizzano gli hanno permesso di crescere rendendolo il movimento islamista più attivo, nonostante sia stato vietato in tutta l’Asia centrale e in altri Paesi, come la Cina e la Russia, in seguito alle accuse di essere coinvolto in attività terroristiche.
In realtà il movimento si è sempre dichiarato contrario alla violenza come forma di lotta politica, anche se sono emerse prove evidenti di radicalizzazione dal 2001. In quell’anno, infatti, Hizb ut-Tahrir ha giustificato pubblicamente gli attacchi suicidi dell’11 settembre, definendoli una strategia di guerra legittima per contrastare il nemico che, al contrario, ha la possibilità di utilizzare armi sofisticate. Nel 2003 inoltre ha dichiarato che la Jihad, così come viene intesa dai fondamentalisti, è l’unica via possibile contro i miscredenti.
Nonostante queste dichiarazioni, non è mai stato accertato il reale collegamento del gruppo con gli attentati che hanno interessato l’area, soprattutto nei primi anni 2000. Non è possibile stabilire con certezza se il gruppo abbia sostenuto la formazione di gruppi militari o se sia coinvolto nel loro finanziamento. Tuttavia è evidente il tentativo del movimento di ampliarsi nelle aree più difficili, cercando di sfruttare le loro debolezze. Oltre all’Asia centrale, infatti il movimento ha cercato di penetrare nella rivoluzione siriana con il tentativo di attirare sotto la sua rete i rivoluzionari.
Un discorso diverso invece potrebbe essere fatto per il Movimento islamico dell’Uzbekistan (IMU), che si è distinto proprio per l’uso della forza nell’area e che è stato particolarmente attivo tra il 1998 e il 2004. Il gruppo non solo ha dimostrato una forte capacità di combattimento, ma ha anche goduto del sostegno dei Talebani, oltre ad aver organizzato basi di addestramento in Afghanistan.
Tuttavia i governi dell’Asia centrale hanno sempre mostrato una maggiore preoccupazione verso il movimento Hizb ut-Tahrir proprio per la forza della sua propaganda, che ha fatto leva sulla debolezza dei governi e sull’insoddisfazione della popolazione. Il movimento infatti è riuscito ad attirare consensi grazie alla sua capacità di presentarsi come un punto di riferimento in un momento di incertezza sociale e politica.
Il Kirghizistan, del resto, ha sempre guardato con sospetto le attività portate avanti da alcuni Imam ed esponenti religiosi sospettati di essere potenziali portavoce dello Stato Islamico con l’obiettivo di infiammare gli animi dei simpatizzanti radicali. Secondo alcune stime questi ultimi sarebbero oltre 7.000, di cui molti si sarebbero recati in Medio Oriente per combattere a sostegno del Califfato. La maggior parte sarebbero originari delle città di Oš e Žalalabad, ma non è da escludere la presenza di kirghisi emigrati in Russia e radicalizzati dai ribelli ceceni.
La reazione dei governi dell’Asia centrale è spesso stata incoerente e poco decisa. Per quanto riguarda il Kirghizistan, nel 2016, ha approvato un programma anti-terrorismo, cercando di aumentare gli strumenti di prevenzione e sicurezza. Tuttavia in diverse occasioni sono state attuate misure repressive, in alcuni casi arbitrarie, contro esponenti e semplici seguaci di Hizb ut-Tahrir, che hanno finito per indebolire ulteriormente il consenso del governo e aumentare la fama del movimento.
Il Kirghizistan sconta, inoltre, uno scarso consolidamento del suo sistema istituzionale. In questo contesto, la retorica della lotta al terrorismo è spesso stata utilizzata dai governi per giustificare il rafforzamento del loro potere e, allo stesso tempo, spostare l’attenzione dalle loro negligenze politiche. Una strategia politica che ha fatto scivolare il Paese nell’atteggiamento del cane che si morde la coda e che continua rischiosamente ad alimentare le opposizioni radicali.