Durante la Rivoluzione dei Tulipani, l’ex presidente kirghiso Kurmanbek Bakiev esordì sostenendo che la Russia è “il nostro migliore amico” e che “gli amici non devono essere cambiati”.[1] Questa frase riassume la continuità dei legami sbilanciati tra Russia e Kirghizistan, sopravvissuti alle forze centrifughe della regione negli ultimi trent’anni.
Durante l’era sovietica, il Kirghizistan aveva acquistato importanza agli occhi di Mosca grazie all’esportazione di prodotti minerali, in particolar modo l’antimonio. Successivamente, Biškek era stata inserita nella Campagna delle terre vergini con lo scopo di aumentare la produzione e l’esportazione agricola.
Con la dissoluzione dell’URSS e la nuova indipendenza il Kirghizistan venne attraversato da un’ondata di nazionalismo che contribuì a rafforzare la sua identità. Nel 1989 il Soviet supremo locale istituì il kirghiso come lingua ufficiale e avviò un piano di otto anni che avrebbe stravolto la prassi di trattare in modo equo kirghisi e russi, dando maggiore importanza alla cultura e alle pratiche dei primi. Questa decisione spinse molti cittadini di etnia russa a lasciare il Paese, preoccupati per il loro futuro.
Diversamente dai suoi vicini, Biškek provò a intraprendere la strada verso un sistema democratico, che vide presto (1990) il trionfo elettorale di Askar Akayev. Il neoeletto presidente rifiutò l’offerta di Gorbačëv di diventare vice presidente dell’Unione degli Stati Sovrani (poi mai realizzata) con lo scopo di proseguire con il progetto di nation-building democratico. Eppure, la nuova nazione si rese ben presto conto di non poter rinunciare ai rapporti con Mosca. Essa si trovò infatti a dover affrontare nuove sfide regionali, come la crescita della Cina e la proliferazione dell’estremismo islamico che avevano attirato l’attenzione degli Stati Uniti in Asia Centrale.
Biškek aderisce a tutte le proposte regionali di Mosca
La crescita di nuovi attori nella regione e la volontà di far riacquistare alla Federazione lo status di grande potenza spinsero Mosca a cercare nuove vie per riallacciare i rapporti con le ex repubbliche sovietiche. Il Cremlino assunse dunque una strategia multiforme. Esso infatti iniziò a promuovere la cooperazione in numerosi ambiti come la lotta contro il terrorismo, l’accesso alle risorse energetiche, la promozione della stabilità politica, la costruzione di uno spazio economico comune e la protezione dei diritti di cittadinanza dei russi all’estero. La Russia cercò di raggiungere tali obiettivi sia attraverso relazioni bilaterali che attraverso la cooperazione nell’ambito di organizzazioni internazionali guidate proprio da Mosca.[2]
La necessità di appoggiarsi a una potenza che garantisse la sua sicurezza spinse il Kirghizistan ad aderire alle proposte di cooperazione regionale russe. Biškek entrò nella Comunità degli Stati Indipendenti, così come nell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva e nell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai. Nel 2014 prese inoltre parte all’Unione Economica Eurasiatica. Attraverso queste strutture Mosca ha assicurato numerosi aiuti sia economici che militari a Biškek.
La Russia all’inizio del nuovo millennio aveva inoltre visto con preoccupazione lo sviluppo delle rivolte in Georgia e in Ucraina contro i governi corrotti vicini al Cremlino. In Kirghizistan, la fallita transizione democratica e la dilagante crisi economica aggravata dall’elevata corruzione fecero scoppiare nel 2005 proteste nazionali sfociate nella Rivoluzione dei Tulipani. Tuttavia questi movimenti si concentrarono più sulla qualità della leadership locale che sul suo collocamento internazionale, permettendo a Mosca di riprendere velocemente i rapporti con l’ex repubblica sovietica.
Le stesse dinamiche sono avvenute anche nel 2020, in seguito alle elezioni di ottobre. Putin ha commentato gli eventi in modo duro: “Penso che gli attuali sviluppi siano un disastro per il Kirghizistan e il suo popolo. Ogni volta che hanno un’elezione, hanno praticamente un colpo di stato. Non è nemmeno divertente”. Ad ogni modo, in seguito alle nuove elezioni dello scorso 10 gennaio che hanno visto trionfare Japarov, Putin si è subito dichiarato disposto a collaborare con il nuovo presidente.
“Penso che gli attuali sviluppi siano un disastro per il Kirghizistan e il suo popolo. Ogni volta che hanno un’elezione, hanno praticamente un colpo di stato. Non è nemmeno divertente”.
Vladimir Putin, 2020
Mosca permea l’economia kirghisa
Le solide relazioni tra i due Paesi sono dovute anche alla forte dipendenza kirghisa dagli aiuti finanziari russi. La forte inflazione seguita al crollo dell’URSS e alla liberalizzazione dei mercati, nonché la crescente corruzione, misero in ginocchio negli anni Novanta la già precaria economia di Biškek. Negli anni molti lavoratori sono pertanto dovuti emigrare dal Kirghizistan cercando impiego soprattutto nella Federazione. Le rimesse provenienti dalla Russia sono arrivate a costituire il 32,9% del PIL del Paese; in più Mosca negli ultimi dieci anni si è ritagliata un ruolo centrale attraverso donazioni (fino a un totale di 250 milioni di dollari). Il Cremlino è inoltre alla guida del Fondo eurasiatico per la stabilizzazione e lo sviluppo che ad agosto ha concesso un prestito di 100 milioni di dollari al Kirghizistan. I costanti aiuti russi hanno reso le relazioni tra i due Paesi sempre più sbilanciate: un loro raffreddamento potrebbe essere catastrofico per Biškek.
Un esempio del ruolo centrale di Mosca nella politica economica kirghisa è emerso in modo lampante durante le discussioni per la costruzione della ferrovia che attraverserebbe Cina, Uzbekistan e Kirghizistan. Nel 2019, Jeenbekov ha infatti dichiarato che Mosca è stata inclusa nel progetto pur non avendo alcun collegamento diretto alla linea, anzi quest’ultima sarebbe in contrasto con l’attuale monopolio della Russia per il transito di merci cinesi verso l’Europa. La mancanza di un beneficio economico diretto dimostra come la Russia cerchi a tutti i costi di mantenere un ruolo geopolitico predominante nella regione.
Biškek vuole aumentare la presenza militare russa sul suo territorio
Poco dopo il crollo delle Torri Gemelle nel 2001, Putin offrì piena cooperazione a Bush nella sua “Guerra al terrore” e acconsentì all’uso da parte del Pentagono di ex basi sovietiche in Asia centrale. Akayev pertanto permise l’utilizzo dell’Aeroporto Internazionale di Manas a scopo militare per tutta la durata della guerra in Afghanistan. Dopo aver ricevuto i soldati statunitensi a braccia aperte, Akayev si rivolse a Mosca per rafforzare la sicurezza interna come atto di equilibrio. Nel 2003, il Cremlino aprì dunque una base militare a Kant. Un maggiore coinvolgimento russo avrebbe inoltre aiutato il Kirghizistan a limitare l’espansione cinese nell’economia kirghisa, ma anche sostenuto l’ex repubblica sovietica nei rapporti instabili con il suo vicinato, in particolar modo nella gestione della disputa sui confini con l’Uzbekistan.
Proprio a causa della continua crescita cinese, e a differenza delle altre ex repubbliche sovietiche, Biškek vorrebbe oggi aumentare la presenza militare russa sul suo territorio, tanto da aver avviato contrattazioni per la costruzione di una seconda base militare nel Paese. Da parte sua, il governo russo si è dimostrato interessato alla proposta. Tuttavia Mosca sta procedendo a rilento per le limitate possibilità finanziarie dovute al contestuale impegno su altri fronti.
Ad oggi, la pandemia ha inasprito ulteriormente l’economia del Kirghizistan, gettandolo in un turbine di instabilità. Tale crisi ha reso il Paese ulteriormente dipendente dagli attori esterni, in primis Mosca. Il Cremlino, da parte sua, è disposto a venirgli in soccorso, sfruttando la storica dipendenza di Biškek per rafforzare la propria influenza nella regione.
Cecilia Tresoldi
[1] Dilip Hiro, Inside Central Asia, Overlook Duckworth, New York & London, 2009, p. 281-307.
[2] Alexander Cooley, Great Games, Local Rules, Oxford University Press, New York, 2012, p. 51-52.