La Russia ha aderito all’accordo di Parigi sul Clima e sta studiando un piano per il contenimento delle proprie emissioni di anidride carbonica. Un impegno in linea con quello della comunità internazionale, che tuttavia appare insufficiente di fronte alle sfide che pongono l’innalzamento delle temperature nella regione siberiana e ai rischi posti dallo scioglimento del permafrost.
Nel 2020 in Russia è stato registrato l’inverno più caldo degli ultimi 140 anni. Un record a cui hanno seguito, in estate, violenti incendi nella regione siberiana (nel 2019 furono ancora più gravi). A questi episodi si sommano i dati allarmanti fatti registrare dagli scienziati circa il trend dell’aumento delle temperature. Secondo gli esperti, la temperatura media russa è aumentata di 1,6 C° in confronto a una media globale dello 0,9 C° rispetto ai livelli preindustriali.
È un bilancio drammatico quello della situazione climatica e ambientale in Russia. L’aumento delle temperature minaccia in particolar modo l’equilibrio della regione artica siberiana, un’area vitale per l’economia del paese. L’Artico costituisce il 65% della superficie della Russia, dalle sue risorse viene prodotto circa il 10% del PIL nazionale, mentre vi risiede solo l’1,5% della popolazione.
La preservazione dell’ecosistema della regione costituisce una priorità per gli interessi economici e di sicurezza di Mosca. Nello specifico, tra le dirette conseguenze del riscaldamento climatico vi è lo scioglimento del permafrost, lo strato di terreno congelato che caratterizza le regioni artiche e su cui, nella regione siberiana, sorgono insediamenti, snodi logistici e infrastrutture critiche.
Non solo autorità internazionali, ma anche le istituzioni russe si sono espresse sul tema. Secondo le stime dell’Istituto Federale Russo per le Risorse Idriche, lo scioglimento del permafrost pone un rischio strutturale anche per quegli edifici che poggiano le loro fondamento sullo strato ghiacciato. Il rischio riguarda infrastrutture per un valore di oltre 300 mila miliardi di dollari che comprendono – sottolinea il rapporto – anche pipeline energetiche e altre infrastrutture di interesse nazionale.
Lo scorso giugno, una cisterna di un impianto industriale della compagnia NTEK, nella zona di Norilsk, è collassata su sé stessa rilasciando nel vicino fiume Ambarnaya oltre 20,000 tonnellate di carburante. L’episodio costituisce ad oggi il più grave disastro ambientale verificatosi nella regione artica.
Stando ai rilievi dell’Autorità per la Supervisione Ambientale, Tecnologico e Nucleare, la cisterna presentava un pessimo stato di manutenzione. La tragedia poteva essere evitata dunque – secondo un’inchiesta della Novaya Gazeta i responsabili della NTEK erano a conoscenza dello stato della cisterna dal 2016 -, ma in questo caso l’assottigliamento dello strato ghiacciato ha costituito l’ultimo elemento critico che ha portato poi al cedimento dell’infrastruttura.
La reazione di Mosca al disastro ambientale è stata immediata. Sono scattate inchieste e verifiche, il Presidente Putin ha dichiaro lo stato di emergenza in tutta la regione mentre il Capo Procuratore Igor Krasnov ha ordinato un piano di verifiche tecniche esteso agli impianti industriali realizzati sul permafrost. Una decisione dovuta ma rischia di rimanere per lo più sulla carta data l’estensione dell’area in oggetto, i numeri degli impianti e le risorse a disposizione.
I vertici sovietici avevano predisposto lo sviluppo delle aree urbane e industriali prevedendo una serie di sussidi e incentivi per il mantenimento in sicurezza delle fondamenta degli edifici che poggiano sul permafrost. Con la crisi degli anni ’90 i finanziamenti sono stati interrotti e le strutture lasciate a sé stesse, mentre gran parte degli abitanti sono emigrati in altre zone della Russia o all’estero.
Ora Mosca sta cercando di recuperare il tempo perduto. Le autorità centrali hanno previsto piani di agevolazione fiscale volti ad attrarre nuovi investimenti e trasferimenti di cittadini russi nella regione. L’intento è di sostenere la creazione di nuovi posti di lavoro e rilanciare così l’economia dell’area, mettendo un freno anche al progressivo spopolamento che ha caratterizzato la regione negli ultimi anni.
L’impegno di Mosca alla lotta al cambiamento climatico
Nel settembre 2019 la Russia ha ratificato l’Accordo di Parigi sul clima, adottato dalla Conferenza di Parigi nel 2015. Un anno dopo, il 5 novembre 2020, il Presidente russo ha firmato un decreto – il decreto presidenziale 666 – nel quale impegna la Russia a tagliare del 70% le emissioni di gas serra rispetto ai livelli del 1990. Il decreto, inoltre, chiede al Governo di elaborare un piano dettagliato, sulla base della bozza presentata la scorsa primavera, per il raggiungimento degli obiettivi climatici.
Se l’adesione della Russia può sembrare in linea, e addirittura superare, quello di molti altri Paesi parte dell’Accordo di Parigi, l’impegno professato da Mosca verso il contenimento delle emissioni è in realtà meno risoluto per una serie di regole ed eccezioni delineate nel piano del Cremlino.
Questo a partire dal caveat indicato dal Presidente: impegno a ridurre le emissioni sì, ma senza danneggiare lo sviluppo socio economico del paese. Una posizione corretta, che risponde all’idea della transizione energetica giusta, ma che tuttavia apre a più interpretazioni. Già ad oggi, il decreto presidenziale prevede una riduzione della CO2 del 30% rispetto ai livelli del 1990, quando invece nella prima bozza uscita la scorsa primavera l’obiettivo era stato fissato al 33%.
Vi è poi il ruolo delle foreste. L’accordo di Parigi permette di conteggiare nella riduzione delle emissioni anche la capacità di cattura della CO2 delle foreste; dettaglio che la Russia intende sfruttare a suo vantaggio, data l’ampia superficie verde del paese, permettendo così di rispettare gli impegni climatici posticipando il dispendioso adeguamento degli impianti ad alta intensità energetica russi con le ultime tecnologie meno inquinanti.
Proiezione sulla base degli scenari contenuti nella bozza della strategia sulle emissioni di gas serra al 2050 elaborata del Governo russo. Fonte: World Resource Institute
In ogni caso, in tutti gli scenari delineati dalla bozza della primavera del 2020, la Russia si troverà ad inquinare più nel 2030 e nel 2050 rispetto ad oggi. Questo perché – spiega un’analisi del World Resources Institute – il punto zero da cui calcolare la riduzione delle emissioni è il 1990. La crisi economica seguita al crollo dell’URSS aveva portato a una contrazione significativa delle emissioni, che ancora oggi segnano una cifra di circa la metà rispetto al 1990.
Infine è da sottolineare come rilevato in una precedente analisi dell’Osservatorio, che la strategia energetica russa al 2035, pubblicata sempre nel 2020, continua a puntare sulle risorse fossili del paese, senza sviluppare adeguatamente quale sarà il ruolo delle rinnovabili nel mix energetico nazionale. È vero che sono in cantiere progetti per l’applicazione di tecnologie sostenibili basate anche sull’idrogeno, ma si tratta di soluzioni specifiche che non possono dare una risposta alle carenze strutturali del sistema industriale nel suo complesso.