Tra la fine del 2010 e i primi mesi del 2011, dal Marocco fino all’Oman, tutti i Paesi del mondo arabo conoscono, in diversa misura e con differenti esiti, numerose proteste e imponenti manifestazioni. Gli scontri e le repressioni sono immediati, ma un processo storico inarrestabile sembra ormai avviato. Mosca osserva fin da subito, con attenzione e preoccupazione, l’evolversi di una situazione caotica e in continua evoluzione …
Sul finire del primo decennio del XXI secolo, tutti i Paesi dell’area nordafricana e mediorientale si trovano a fronteggiare importanti sfide, che mettono a confronto strutture istituzionali, sociali ed economiche irrigidite ed arretrate con il mondo globalizzato in costante evoluzione. Gli effetti della crisi del 2007 (su tutti la crescente disoccupazione) sui mercati e sulle società di questa ampia regione si sommano a processi di lungo periodo, come la forte pressione demografica. In un contesto così complesso e multiforme, un evento simbolico viene indicato come la scintilla che accende le cosiddette “Primavere arabe”: il 17 dicembre 2010 un giovane ambulante tunisino, Mohamed Bouazizi, frustrato dall’ennesimo sopruso subito, dalla corruzione e dal nepotismo che spengono le speranze occupazionali dei giovani laureati, si dà fuoco davanti al palazzo del Governatorato di Sidi Bouzid. Immediatamente, in altre città della Tunisia, centinaia di ragazzi e studenti scendono in strada per protestare contro il governo di Zine El-Abidine Ben Ali, in carica da ben 23 anni. Da questo momento in poi, manifestazioni, scontri e slogan si diffondono rapidamente nel Maghreb e nel Mashreq, grazie anche all’innovativo uso fatto dai giovani di un importante strumento tecnologico, finora sotto stretto controllo: Internet. La miccia delle proteste è ormai accesa.
Dalla Tunisia, i moti si diffondono rapidamente nei paesi limitrofi ed in tutto il mondo arabo: il 25 gennaio in Egitto viene proclamata la “giornata della collera”, con imponenti manifestazioni che portano Mubarak alle dimissioni dopo trent’anni al comando; il 14 febbraio, in Bahrein, la maggioranza della popolazione sciita sfila in corteo, chiedendo al re (sunnita) la fine delle discriminazioni e scontrandosi con le forze regolari; il 17 febbraio l’opposizione in Libia organizza un’altra “giornata” contro il regime di Gheddafi ed in breve tempo le dimostrazioni e la repressione degenerano nella guerra civile, tuttora in corso; la situazione evolve in maniera simile nello Yemen contro il Presidente Saleh, mentre in Marocco, Algeria, Giordania e Arabia Saudita le promesse riformiste dei leader e limitati interventi di polizia riescono a mantenere la situazione sotto controllo. In Siria infine, terreno dell’intervento russo quattro anni dopo, la “giornata della dignità” indetta per il 15 marzo 2011 nelle principali città del Paese porterà ai primi scontri e, in seguito, alla tragedia di un’altra guerra civile.
Mosca osserva
I primi mesi d’instabilità ricevono un’ampia copertura dai media internazionali, che talvolta non disdegnano usi distorti e politicizzati delle immagini e della cronaca degli eventi. Mosca, storicamente avversa ad ogni forma di instabilità politica e istituzionale dentro e fuori i propri confini, segue con apprensione gli sviluppi della situazione nel mondo arabo, ma la reazione iniziale del Cremlino non è uniforme.
La confusione e la scarsa coerenza nelle prime percezioni delle “Primavere arabe” appare evidente nelle parole dell’allora presidente russo Medvedev, che al World Economic Forum di Davos [26 gennaio 2011], a poche settimane dallo scoppio delle proteste in Tunisia, riconosce come
Queste parole ci appaiono piuttosto insolite, contrastano nettamente con quanto dichiarato nei mesi successivi dalle altre figure istituzionali russe e sono sicuramente dettate dalla difficile interpretazione delle fasi iniziali del fenomeno politico-sociale riguardante il mondo arabo.
Le diversità tra le opposizioni nei vari Stati e le molteplici reazioni dei governi in carica creano un clima piuttosto caotico, in cui Mosca fatica a delineare un approccio coerente. Tra le prime dichiarazioni in merito, quella del Ministro degli Esteri Sergej Lavrov:
Nella stessa occasione, tuttavia, si fa subito chiara una posizione fondamentale, pilastro della strategia estera russa, che verrà costantemente ribadita negli anni a venire:
Sullo stravolgimento istituzionale in atto si esprime anche Putin, che guardando la mappa del Medio Oriente dichiara: “ci sono monarchie ovunque (inesatto, N.d.A.) e questo corrisponde sostanzialmente con la mentalità del popolo”. Oppure ancora Lavrov, che riferendosi alla Libia di Gheddafi, conferma così le motivazioni profonde dei timori politici russi, definendo la Grande Jamahiriyya Araba Libica Popolare Socialista come “stabile, economicamente sostenibile e socialmente accettabile per la popolazione”.
La percezione dell’interferenza
Tuttavia, Mosca mostra fin da subito un certo attivismo, muovendosi nello scenario mediorientale per interpellare gli attori coinvolti e discutere il superamento delle difficoltà; tra il 9 ed il 13 febbraio 2011, una delegazione interparlamentare diretta dal Vice-Ministro degli Esteri Alexander Saltanov visita Egitto, Siria, Giordania e Arabia Saudita; il viaggio permette alla Russia di comprendere meglio i problemi politici e socio-economici sorti in questi Paesi e consente di elaborare una posizione più uniforme, che ribadisce il rifiuto delle “ricette imposte” e delle interferenze esterne.
L’ambiguità russa di quei mesi si riflette anche nel differente approccio messo in campo da Mosca nei confronti degli eventi siriani e di quelli libici. Il Cremlino, infatti, si è mostrato inizialmente piuttosto “attendista” nei confronti di Tripoli e di Gheddafi. L’astensione sulla risoluzione ONU 1973 sulla no-fly-zone sulla Libia ne è una dimostrazione, sintomatica della grande indecisione attorno alla caotica evoluzione degli eventi e dei differenti interessi strategici calcolati allora da Mosca in Nord Africa e in Medio Oriente. Il caso della Libia e il rapido peggioramento della situazione possono essere considerati, dunque, lo spartiacque della decisa presa di posizione russa, e diventeranno l’esempio emblematico degli insuccessi delle politiche interventiste statunitensi e occidentali, il leit motiv costantemente citato dai diplomatici russi in varie sedi internazionali per giustificare la posizione del Cremlino sulla Siria. Oltre alla grande “cospirazione” volta a sconvolgere lo status quo nel Mediterraneo, la tragedia libica sprona i rappresentanti russi all’ONU a sollevare, per la prima volta, la questione della politicizzazione dei diritti umani, ripresa spesso in seguito nei tavoli di discussione sulla Siria.
L’élite politica e gli apparati di sicurezza vedono la manovra, diretta o indiretta, dell’Occidente dietro ogni sconvolgimento antigovernativo nella sfera d’influenza del Cremlino. Molti strateghi sostengono la teoria del manageable chaos (“disordine controllato”), che gli USA e i suoi alleati tentano di applicare destabilizzando il Medio Oriente.
Ad alimentare ulteriormente questa convinzione concorrono altri importanti fattori d’instabilità interni alla Federazione, come un’economia allora reduce da una forte contrazione [-9,2%] e il malcontento per la difficile situazione politica, fomentato dall’annuncio della staffetta Dmitrij Medvedev–Vladimir Putin per le elezioni presidenziali del 2012. La nascita di numerosi movimenti di protesta, al grido di Rossija bez Putina (“Una Russia senza Putin”) e le accuse ripetute di brogli elettorali e corruzione rendono il biennio 2011-12 piuttosto caldo per Mosca.
Ad esacerbare gli animi e le percezioni arrivano anche le forti dichiarazioni di Washington contro il Cremlino, tracciando un evocativo (e sproporzionato) parallelo tra la situazione in Russia, la questione libica e la morte di Gheddafi. Rivolgendosi a Putin, il senatore americano John McCain lo avverte che “la Primavera araba si sta avvicinando”, mentre Hillary Clinton definisce le elezioni russe “tutt’altro che trasparenti”92. Queste dichiarazioni e le manifestazioni domestiche contribuiscono ad accrescere il sospetto di un complotto volto a destabilizzare il Medio Oriente e, in seconda battuta, la Russia stessa. I siloviki e l’élite politica iniziano una forte propaganda difensiva, paventando a loro volta la minaccia di una “rivoluzione arancione” o di uno “scenario libico” in patria ed accusando “forze esterne” di intervenire negli affari interni della Federazione.
L’atteggiamento cauto mostrato dal Cremlino nei primi mesi, dunque, non ha mai significato una revisione dei principi di politica estera russa, quanto piuttosto un’attenta osservazione di un fenomeno in piena evoluzione, un’attesa necessaria e calcolata, anche al costo di sacrificare una possibile sponda (la Libia di Gheddafi). Il successivo impegno, prima diplomatico poi militare, al fianco di Damasco conferma come ogni “primavera” o “rivoluzione colorata” (Ucraina, Georgia, Kirghizistan fino ad allora, oggi Bielorussia, se consideriamo lo spazio postsovietico) venga sempre percepita da Mosca come un attacco implicito agli interessi russi nel mondo, per cui è richiesta particolare attenzione per poterli tutelare o ridurre al minimo le perdite.