“Pensa che Putin sia un assassino?” “Sì”. Con un semplice monosillabo, il presidente statunitense Joe Biden ha messo a durissima prova i già scarsi rapporti con il Cremlino. Ma il suo vero obiettivo non è la Russia, bensì la Germania e chi in Europa non si è ancora schierato nettamente contro Mosca.
Un j’accuse di queste proporzioni non si era mai sentito, almeno tra grandi potenze. Restando alle relazioni russo-americane, per vedere qualcosa di simile si deve risalire almeno al sovietico “impero del male” di reaganiana memoria. E tuttavia, bisogna ammettere, anche quell’epiteto impallidisce dinnanzi a un attacco così diretto e personale. I tempi e la comunicazione sono cambiati, certo, la diplomazia ha perso smalto nell’era della disintermediazione e Trump poi ha stravolto quel che restava delle vecchie regole – ma lo stesso, oggi, nessuno o quasi si aspettava una simile bordata.
Verrebbe quasi da parafrasare Renzi per descrivere la prima reazione dell’establishment russo: incredulità, incertezza sul da farsi. Lo mostrano le risposte quasi contraddittorie dei suoi vertici: da un Volodin che parla subito di “attacco a tutta la Russia” a una Zakharova, eccezionalmente mansueta per i propri standard, che quasi giustifica il richiamo dell’ambasciatore a Washington spiegando che bisogna aggiornarsi a poco meno di 100 giorni dal cambio di leadership alla Casa Bianca.
Putin stesso, poi, ha scelto un profilo relativamente basso. Prima respingendo – a 24 ore di distanza e con un certo aplomb – le accuse al mittente, poi invitando il proprio omologo a un confronto diretto e “in diretta”. Confidando forse in qualche passo falso dell’interlocutore, evidentemente ritenuto incapace di un vero confronto. Il leader del Cremlino è apparso annoiato, non sfiorato dalle accuse. Di certo non scioccato, come se si trattasse di ordinaria amministrazione, solo un po’ più colorita. Difficile crederci.
Sia quel che sia, bisogna innanzitutto sfatare un’idea: l’attacco di Biden non è classificabile come una gaffe. Benché l’ex vice di Obama abbia una rispettabile carriera in tal senso alle spalle, è evidente che simili affermazioni non possano “scappare” per errore, né essere in qualche modo improvvisate. Anche perché non è pensabile un simile assist giornalistico senza accordi predefiniti. Dunque, se non si tratta di un incidente, perché è stata portata avanti una simile mossa? E che conseguenze avrà?
Come spesso accade, non bisogna concentrarsi troppo sul destinatario diretto ma su chi sta in mezzo. In questo caso, l’Europa. Stretta nella lotta tra le due ex superpotenze, senza contare il terzo incomodo cinese. E soprattutto, smarrita nel caos pandemico che ne sta demolendo l’autorevolezza. Il doppio smacco d’immagine subìto sul fronte delle vaccinazioni (mancata consegna delle dosi e sospensione delle somministrazioni di AstraZeneca) la lascia scoperta e inerme davanti alle iniziative altrui. Sulla carta, per la Russia e il suo Sputnik V si apre un’insperata prateria, una possibilità senza precedenti di inserirsi nella contesa (economica e di soft power) per la cura del continente.
Prospettiva insopportabile per Washington. Tanto più se sommata a ciò che sta avvenendo nelle acque del Baltico, ovvero il completamento del Nord Stream 2. In entrambi i casi, la vera artefice delle aperture a Mosca non è una generica “Europa” bensì il suo esponente più illustre e pesante, la Germania. Il suo governo è passato sopra ogni cosa (anche sul caso Naval’nyj che l’ha pure indirettamente coinvolto) pur di finalizzare l’operazione del gasdotto. Ed è oggi additato come primo responsabile dell’ondata di sospensioni “cautelative” dell’utilizzo di AstraZeneca: la scelta tedesca ha prodotto un effetto a catena su quasi tutti i Paesi UE.
Gli Usa le hanno provate un po’ tutte per far fallire l’intesa tra Berlino e Mosca. Con Trump, attaccando prevalentemente la prima; con Biden, puntando i riflettori sulla seconda. Cambiano le modalità e non l’obiettivo. L’attuale presidente americano sta tentando di giocare l’ultima carta, quella dei diritti umani, perché sa bene che si tratta di un tasto dolente. Non tanto per Putin, ormai impermeabile a questo genere di armi, bensì per Angela Merkel. Che un po’ per tradizione di governo, un po’ per silenziosi vincoli storici, non può ignorarne il valore. Soprattutto alla fine del suo ultimo mandato, quello in cui se ne definisce l’eredità.
Del resto non è mica una novità che l’unico binario morto dei rapporti russo-tedeschi riguarda proprio le questioni di principio, per le quali la Germania si è fatta spesso pure promotrice di sanzioni, dalla Crimea in poi. Comprare gas o vaccini dal Paese da oggi ufficialmente diretto da un “assassino” può inibire persino il mercantilismo più sfrenato di Berlino. O forse no, si vedrà. Ma anche se non dovesse riuscire a separare i destini di Russia e Germania, l’ammonimento statunitense ha raggiunto comunque lo scopo di lanciare un segnale al continente: il nemico non è cambiato, ciascuno sappia regolarsi.