Un anno dopo la clamorosa guerra dei prezzi con Riad e l’annuncio delle prime misure di lockdown per contrastare il Covid-19, un’analisi dello stato di salute dell’economia russa.
Il debito pubblico cresce ma non spaventa
In un habitat macroeconomico che si appresta a diventare il più indebitato della storia, la Russia non costituisce un’eccezione: nel 2020 il Cremlino ha infatti aumentato la propria spesa pubblica del 39,9%, ossia di circa 73 miliardi di dollari. La cifra, sommata al passivo già accumulato negli anni precedenti, ha determinato l’attuale debito pubblico di 257 miliardi di dollari. Il dato – naturalmente in netta crescita rispetto al valore pre-pandemia del 2019 (che era stato anch’esso in salita, del 7,8% o $13 miliardi, per un debito complessivo di $183 miliardi) – si è ripercosso sul cruciale rapporto debito/PIL: dal 12,3% del prodotto nazionale del 2019, il debito pubblico russo è arrivato a valere il 17,8% del PIL nel 2020.
Un indicatore che, nonostante tutto, non desta grandi preoccupazioni al Cremlino, quantomeno nel breve termine. Anzi, possibilmente conferma la già palese parsimonia macroeconomica del Paese eurasiatico: Mosca rimane infatti l’unica economia del G-20 a vantare un rapporto debito/PIL inferiore al 20% – un miraggio non solo per economie atavicamente iper-indebitate come quella italiana (che ha da poco sfondato quota 157,5%), ma anche giganti industriali come la Germania (70%). Così, mentre l’UE e gli Stati Uniti facevano largo ricorso all’indebitamento per finanziare le ingenti spese di welfare rese necessarie dalla pandemia – e ciò grazie ai bassi tassi di interesse nell’era dell’easy money – anche la Russia decideva di battezzare la via del mercato. Così facendo, si è rifiutata di attingere al proprio fondo sovrano, nella cui pancia sono stipati poco più di 175 miliardi di dollari, la cui ragion d’essere è appunto quella di fungere da ombrello, durante i periodi di vacche magre (come quello dello scorso marzo), a un’economia profondamente interconnessa al lunatico mercato dell’energia.
Da notare, peraltro, come solamente un quinto del debito pubblico russo sia detenuto da investitori stranieri (62,4 miliardi di dollari), rispetto alla ben più consistente quota sottoscritta da operatori domestici (183 miliardi). Il trend “autarchico” ha raggiunto il suo acme nell’aprile del 2020, quando il debito estero russo è sceso ai minimi storici dal 2009, principalmente a causa della rivalutazione conseguente al deprezzamento del rublo nel bel mezzo della crisi energetica globale. Ciò ha in realtà consentito alla Federazione di mantenere inalterati i propri ratings creditizi sui mercati internazionali, oltre a far sì che il (minore) debito estero sia interamente garantito dalle riserve auree e da quelle di valuta estera detenute dalla Banca centrale. Ad oggi, Standard & Poor’s, Moody’s e Fitch catalogano i titoli di Stato russi come investimenti di qualità medio-bassa (rispettivamente BBB-, Baaa3 e BBB), tra i meno affidabili nella categoria investment grade, ma comunque un gradino sopra il livello speculativo. La somma di tali fattori ha in ultima analisi fatto agevolmente affluire a Mosca capitali privati sufficienti a far fronte alle spese pandemiche, le quali non sembrano comunque aver sconvolto il quadro macroeconomico generale.
Il PIL non sprofonda, nonostante il petrolio
L’effetto delle misure governative di contrasto alla diffusione del Covid-19 ha inevitabilmente condotto a ricadute economiche da capogiro. Dinanzi a una contrazione media globale del 4,3%, il PIL russo è calato “solo” del 3,1%. Decisamente meglio delle aspettative di gran parte degli esperti, le cui previsioni facevano riferimento a un range tra -3,5% e -4%. Secondo l’analista Dmitrij Dolgin della banca commerciale ING Direct, la mancanza di previsioni ottimistiche sullo stato di salute dell’economia russa prima del 2020 potrebbe avere paradossalmente contribuito a smorzare il colpo: sino ad allora, infatti, il timido tasso di crescita del PIL russo (intorno al 2%) aveva impedito accumuli di scorte. Ciò ha fatto il paio con un vigoroso sostegno pubblico al bilancio, sostanziatosi in un consumo statale che ha raggiunto il 4% in termini reali nel 2020 (massimo storico).
Va inoltre tenuto in considerazione come il settore più duramente colpito da restrizioni e distanziamento sociale, quello della ristorazione e dei servizi ricettivi, costituisca solo una microscopica parte del PIL russo (appena lo 0,7%), e che quindi i danni avvertiti dai rispettivi operatori non si siano riverberati in misura decisiva sul prodotto complessivo.
Rimane però oggetto di mistero come abbia fatto il principale esportatore mondiale di gas naturale – il cui prezzo è correlato a quello del petrolio – a rimanere praticamente indenne dal drammatico calo di prezzi che ha caratterizzato il mercato del greggio dal marzo 2020 alla ripresa (in corso). Una chiave interpretativa è fornita dall’economista Torbjörn Becker. Secondo l’analista svedese, nel calcolo del PIL reale russo ad essere presi in considerazione sono i cambiamenti di volume piuttosto che quelli di valore – il che finisce per trascurare l’inflazione. La componente dell’export ignora perciò la variazione dei prezzi del petrolio sui mercati internazionali, e ciò quantunque “ciò che il governo, le imprese e i consumatori in Russia possono spendere [sia] molto più intimamente legato a quanto denaro viene guadagnato con le […] esportazioni invece dei barili di petrolio che il Paese ha venduto al resto del mondo”.
Sul rublo pesano le prospettive incerte
Gli effetti della crisi pandemica e dello shock energetico si sono invece fatti sentire sul mercato valutario, e in particolare sul tasso di cambio del rublo (RUB) nei confronti del dollaro (USD) e dell’euro (EUR). Laddove nel febbraio dell’anno scorso 1 dollaro veniva scambiato a poco meno di 67 rubli (66,7 per la precisione) – e 1 euro a 73,6 rubli – appena un mese dopo, con il repentino aggravarsi della situazione epidemiologica e della guerra dei prezzi russo-saudita, la valuta nazionale russa ha subito un deprezzamento e fatto impennare mediamente a 79,2 il rapporto RUB/USD e a 85,9 il rapporto RUB/EUR.
Al momento in cui si scrive, il rublo ha recuperato valore rispetto alla fase più acuta della crisi, ma sconta ancora una debolezza legata a prospettive macroeconomiche e geopolitiche incerte – tale per cui 1 USD è scambiato a circa 74 RUB e 1 EUR attorno agli 88 RUB.
Deficit e inflazione: il ritorno a una politica monetaria neutrale
L’economia russa sembra aver ben attutito il colpo anche sotto il piano del deficit, essendosi questo assestato al 3,8% del PIL. Le cause, secondo Dolgin, sono da ricercarsi in un “gettito fiscale migliore del previsto, entrate una tantum pari all’1% del PIL e [un] persistente arretrato di spesa dell’1% del PIL”.
Lo scorso 19 marzo, la Banca centrale russa ha inoltre alzato dal 4,25% al 4,5% il proprio tasso d’interesse di riferimento – ovverosia il tasso di interesse al quale la banca centrale moscovita presta denaro agli istituti bancari nazionali. La decisione è stata presa dalla governatrice Ėl’vira Nabiullina, la quale ha addotto a motivazione di tale scelta “la pressione inflazionistica e i rischi inflazionistici”, i quali imporrebbero il ritorno a una “politica monetaria neutrale”. L’inflazione annuale ha difatti raggiunto il 5,8% a metà marzo – molto più del target d’inflazione del 4%. Gli analisti della Banca centrale prevedono inoltre che il parametro inflazionistico non rientrerà nei limiti del 4% prima del 2022, e ciò a causa di “una maggiore volatilità nei mercati globali, guidata da vari sviluppi geopolitici”.
L’ulteriore gelo precipitato sulle relazioni russo-statunitensi dopo le dichiarazioni al vetriolo di Biden su “Putin l’assassino” è senz’altro da annoverare a pieno titolo tra questi ultimi.