Tra il 1991 e il 2011 si consumano venti anni di storia cruciali per l’influenza russa nel Mediterraneo. Un periodo che può essere diviso esattamente in due: nel primo decennio la Federazione perde tutte le posizioni acquisite in era sovietica; nel secondo, con Putin, ritrova un ruolo importante, se non determinante. Un recupero che si interrompe bruscamente nel 2011, almeno in Libia. E che spiega, in buona parte, l’atteggiamento dei russi negli anni successivi.
Se la Russia, tra il 2011 e il 2012, reagisce a ciò che accade nella sponda sud del Mediterraneo, non lo fa per mere ragioni ideologiche. Certo, il sovranismo di cui si fa interprete Vladimir Putin – all’epoca dei fatti comunque solo primo ministro della Federazione – aveva già gettato le sue radici agli inizi del decennio, e anche prima. Ma la “rivoluzione colorata” più importante di tutte, quella ucraina del 2013-14, doveva ancora venire. Per portare con sé gli effetti più devastanti della crisi tra Russia e Occidente.
All’alba delle primavere arabe, il Cremlino non collega subito ciò che sta avvenendo in Nordafrica con presunte interferenze occidentali. Ad allarmarlo sono in realtà altre due circostanze: la possibilità che le proteste si estendano a macchia d’olio in tutto il Medio Oriente, risalendo poi per il Caucaso fino alla stessa Russia, e il rischio che i suoi affari nella regione vengano stravolti a seguito dei cambi di regime.
Entrambe le circostanze hanno dei forti punti di contatto con la realtà. Il biennio 2010-11 è particolarmente critico per Mosca, che deve registrare un particolare calo di consensi per la sua leadership. L’idea che oltreconfine una sollevazione popolare trasversale si stia infiammando a dismisura, travalicando persino i confini del mondo arabo (almeno a giudicare dai movimenti in Iran) è un elemento di preoccupazione non indifferente per il Cremlino. Ma ancor di più, a motivare le sue reazioni a mano a mano più dure, è la consapevolezza che diversi regimi investiti dalle contestazioni stanno crollando. E con essi i contratti stipulati con la Federazione.
Qui occorre fare un passo indietro. Perché la Russia aveva cominciato da poco a (re)interessarsi del Medio Oriente, dopo anni di sostanziale abbandono. La luna di miele tra Mosca e i Paesi arabi era durata lo spazio di un paio di decenni, quelli iniziali della Guerra fredda. Poi, a partire dagli anni Settanta, per varie circostanze geopolitiche – come la nascita di nuovi poli d’attrazione, l’Arabia Saudita e in seguito l’Iran khomeinista – l’Unione Sovietica aveva perso importanti posizioni, ad esempio nell’Egitto di Sadat. Il suo prestigio e la sua influenza militare non erano tuttavia andati persi, come tra le altre cose dimostra l’apprensione con cui molti governi mediorientali accolgono la dissoluzione dell’Urss, nel 1991.
Gli anni che seguono vengono unanimemente considerati dagli analisti come il nadir dell’influenza globale di Mosca, almeno dai tempi della Rivoluzione russa. La nuova Federazione è pressata da due imperativi: stabilizzare l’economia al suo interno, smussando così le rivendicazioni centrifughe delle sue regioni più scontente, e compiacere l’egemone statunitense, che dopo aver vinto la Guerra fredda non ammette troppe deviazioni nella “cura” liberale imposta al suo ex rivale. Non resta spazio, né tempo, né soprattutto risorse per altre ambizioni, quali il mantenimento di un’influenza (tantomeno di una vera presenza) in Medio Oriente e nel mondo arabo.
In realtà, alcune figure si oppongono alla deriva “introversa” della Federazione, ritenendola un errore strategico di grave portata. Tra queste è da annoverare senz’altro Evgenij Primakov, il più lucido interprete della politica estera russa degli anni Novanta, che arriverà ad essere premier nella seconda metà del decennio (sfiorando pure la successione ad El’cin). Primakov, diplomatico e studioso del mondo arabo, si rende conto dell’importanza delle radici sovietiche (e ancor prima russe) nella regione, ritenendo un errore sopprimerle o lasciarle morire d’inedia. Tuttavia poco può fare dinnanzi alle ristrettezze russe del decennio – che culminano nel default del 1998 – e ancor meno rispetto allo strapotere americano nella regione.
Non toccherà dunque a lui risollevare le sorti dell’influenza russa in Medio Oriente, ma al suo erede “spirituale” Vladimir Putin, dal 2000 presidente della Federazione. Benché fino ad allora fosse un suo avversario, Putin riconosce presto gli insegnamenti di Primakov e li fa suoi, adattandoli ai cambiamenti imposti da un mondo in rapida evoluzione. Il più drastico di essi arriva l’11 settembre 2001, con tutto ciò che ne consegue: prima la generica “guerra al terrorismo” che vede per un breve periodo la Russia allineata agli Stati Uniti (in nome di una comune volontà di sradicarlo, benché in contesti molto diversi come la Cecenia e l’Afghanistan); poi la sua degenerazione con l’intervento americano in Iraq e la cacciata di Saddam Hussein dal Paese.
Qui avviene la prima vera svolta mediorientale della Russia: rincuorata dalle divisioni del fronte europeo, con Francia e Germania contrarie all’intervento anglo-americano nella Mezzaluna, Mosca comincia a distanziarsi nei termini più netti dalla politica di Washington nella regione. E comincia così a guadagnarsi qualche simpatia nell’area, anche se non è certo sufficiente a ristabilire una vera forma d’influenza. Per quest’ultima sarà molto più utile l’impennata dei prezzi del petrolio, che oltre a rafforzare enormemente Putin e le sue riforme (nei primi anni Duemila l’economia russa vede una costante crescita) ne avvicina il destino a un Medio Oriente sempre più caldo.
La Russia gradualmente guadagna nuovi spazi di manovra, e anche se ancora è ben lontana dal recuperare l’influenza perduta riesce a ottenere i primi risultati di rilievo. Tra questi, il ritorno a un ruolo negoziale nel conflitto israelo-palestinese, ma anche il riavvicinamento a vecchi (Siria, Egitto) e nuovi (Iran, Arabia Saudita) partner che conferiscono alla politica estera russa un certo carattere di autonomia e persino di originalità – almeno nel provare a bypassare le fratture geopolitiche regionali, come quella tra potenze sunnite e sciite.
Mosca acquista un ruolo sempre più rilevante anche grazie ai suoi rapporti con l’OPEC – anche se non vi aderisce – e coi suoi Paesi membri. Tra questi la Libia. Pur in assenza di una lunga tradizione diplomatica (se si eccettuano sporadici interessi sovietici precedenti, come la richiesta postbellica di Stalin di ottenere un mandato fiduciario sulla Tripolitania), la Libia è oggetto di crescenti attenzioni russe nei primi anni Duemila. E nonostante alcuni scontri, come quello seguito all’arresto di un rappresentante della Lukoil nel novembre 2007, i due Paesi raggiungono importanti accordi – dal valore di alcuni miliardi di dollari – tra la fine dei primi due mandati consecutivi di Putin e l’inizio di quello di Medvedev.
Tra questi la risoluzione del debito libico, la costruzione di una ferrovia tra Bengasi e Sirte, la cooperazione tra Gazprom e la NOC, la vendita di armi e persino l’utilizzo dei porti libici per l’attracco di navi militari russe. Possibilità, quest’ultima, da prendere con le pinze data la notoria mutabilità della politica estera di Gheddafi. Molti di questi accordi, ad ogni modo, vengono vanificati dalla fine violenta del suo regime, osteggiata – ma senza troppa forza, e di questo Medvedev e Putin non si pentiranno mai abbastanza – da una Russia in difficoltà nell’estate del 2011.
Agli esordi delle primavere arabe, la Russia era assieme all’Italia tra i primi partner di Tripoli. E come il nostro Paese, perderà per molto tempo la possibilità di incidervi rifiutandosi di difendere a spada tratta il regime di Gheddafi, in caduta libera con la guerra civile e l’intervento occidentale. I più maligni vedranno in quest’ultimo un deliberato tentativo di estromettere i russi dalla sponda sud del Mediterraneo, ma sembrerebbe un’ipotesi ancora troppo ardita. Di fatto, tuttavia, il caos libico priva Mosca di una sponda che non rivedrà per almeno cinque anni. Fino a quando le contingenze le permetteranno di tornare in forze – anche se in via non ufficiale, grazie al gruppo Wagner – nella sua parte orientale.
Ma questa è un’altra storia, di molto successiva alle primavere arabe.