Secondo un preconcetto piuttosto comune, la Russia dispone di uno smisurato potenziale di risorse umane da impiegare per fini geopolitici. Nazione più popolosa tra quelle dell’Europa continentale, la Federazione sta vivendo però una vera e propria crisi demografica, che rischia di intaccare le prospettive future del Cremlino.
Solo quest’anno la popolazione russa si è infatti ridotta di oltre 510.000 persone, la contrazione più significativa dalla metà degli anni 2000 secondo le statistiche pubblicate dall’Ente nazionale per le rilevazioni, Rosstat. Il Paese ha subito un eccesso di mortalità causato dalla pandemia di coronavirus, che con 229.700 decessi ha impattato sul già fragile sistema sanitario. Eppure il calo della popolazione ha fondamenti più profondi, quali il basso tasso di natalità e la speranza di vita, nonché le ondate di emigrazione. Gli scenari futuri sono da incubo e quello peggiore vede la popolazione russa contrarsi fino a raggiungere la cifra di 134,2 milioni già nel 2035.
Il quadro esposto appare piuttosto fosco, intaccando tanto le discutibili prospettive economiche quanto le potenzialità geopolitiche di un Paese che si percepisce parte integrante dei processi di decision making su scala globale. Con un materiale umano che invecchia progressivamente e si spopola, può la Russia confermare la sua assertività globale o è destinata a un processo di irreversibile declino?
Crescita naturale della popolazione della Russia 1950-2014
Una tendenza di lungo corso
La congiuntura negativa è un fenomeno che pone le sue radici all’interno del periodo sovietico. Maggiore repubblica all’interno dell’URSS, la Russia ha conosciuto strutturali cambiamenti socioeconomici che si rispecchiano ancora oggi. La tragedia della Grande Guerra Patriottica e le violente politiche di repressione staliniane hanno lasciato una serie di cicatrici nella vitalità demografica. Tuttavia, il motivo del sostanziale calo demografico risiede in ben altri fattori.
Le politiche di welfare attuate dall’Unione Sovietica come l’introduzione del divorzio (1918), la diffusa prevalenza di aborti in crescita già dagli anni ’20, l’urbanizzazione, il forte incremento dei tassi di secolarizzazione e scolarizzazione hanno contribuito a frenare la vitalità demografica di epoca imperiale. Dopo il 1948, in URSS vi fu un forte calo della mortalità infantile e un aumento della crescita naturale, grazie allo sviluppo della medicina statale, alla diffusione degli antibiotici e alla crescita del tenore di vita.
Il processo di diminuzione dei tassi di natalità ha ridotto la crescita, accompagnata da una massiccia urbanizzazione, in quanto dagli anni ’50 il tasso di natalità nelle aree urbane è sceso al di sotto del tasso di sostituzione. Dal 1948 al 1989, l’URSS ha registrato una crescita naturale della popolazione, di circa l’1% annuo. Tuttavia, tale fenomeno si è localizzato esclusivamente nelle Repubbliche dell’Asia centrale e nel Caucaso, mentre in Russia il tasso di fertilità è sceso al di sotto del livello di riproduzione già dal 1964.
Una combinazione di politiche a favore della natalità e la campagna antialcol degli anni ’80 hanno prodotto un aumento della popolazione durante il 1986-87, ma già dall’anno successivo il numero di morti ha raggiunto quota 720.000 all’anno, mentre le nascite sono diminuite di 1,2 milioni. Il tasso di fertilità è sceso al di sotto del tasso di sostituzione di 2,1 nascite, raggiungendo un anemico 1,2 dal 1997 al 2001, mentre i tassi di mortalità sono aumentati notevolmente.
Tassi di incremento (verde) o riduzione (rosso) della popolazione nelle regioni russe nel 2018
Alla radice dell’inverno demografico
Il confuso periodo di transizione dalla caduta dell’Unione Sovietica all’ascesa di Vladimir Putin è abitualmente visto come un periodo di declino per via di disfunzionali politiche di transizione economica e sconvolgimento politico. La crisi economica succeduta al crollo dell’Unione ha esacerbato le statistiche demografiche, facendo schizzare in alto gli indici di mortalità, mentre la stagflazione e il degradarsi delle condizioni del welfare hanno contribuito a intaccare il precario stile di vita dei russi.
Negli ultimi quarant’anni, la Federazione Russa ha subito una regressione dei livelli di salute pubblica preoccupanti. Inoltre, le malattie e le afflizioni sperimentate dalla popolazione sono intrinsecamente più difficili da affrontare viste le tribolate condizioni del sistema sanitario russo. Nel Paese, ad esempio, un’importante causa di mortalità è rappresentata dalle malattie cardiovascolari legate a fattori comportamentali quali il diffuso consumo di alcool e fumo.
Ancora, pare andare incontro a un esponenziale crescita l’emigrazione di giovani istruiti. Secondo le statistiche pubblicate da Rosstat, 377.000 russi hanno lasciato il Paese nel 2017, mentre un rapporto del Consiglio Atlantico illustra che dall’ascesa alla presidenza di Vladimir Putin tra 1,6 e 2 milioni di russi sono partiti per i Paesi occidentali, confermando i timori di una fuga di cervelli, così come appare preoccupante il dato secondo cui il 20% dei russi in età lavorativa si dichiara disposto a emigrare.
Questo valore è in parte compensato dall’afflusso di immigrati dal Caucaso e dall’Asia Centrale, fenomeno che tuttavia rischia di andare incontro a un rovesciamento. Se è vero che la pandemia ha contribuito al calo degli arrivi, sempre più centroasiatici stanno comprendendo la necessità di cambiare destinazione, vista la crescente difficoltà dell’economia russa e la scarsa tutela da parte delle autorità locali.
Parata della Vittoria a Mosca, 9 maggio 2015
Le implicazioni economiche e geopolitiche
La questione pressante della crisi demografica resta un’incognita, inoltre, per lo sviluppo economico e la proiezione della Russia come protagonista nel contesto globale. Ad essere intaccato dalla congiuntura è soprattutto il mercato del lavoro. Secondo un rapporto della Banca mondiale del 2016, fattori come il calo della fertilità e il pensionamento degli individui nati negli anni ’50 potrebbero ridurre la popolazione in età lavorativa di circa 14% nei prossimi 35 anni.
Se non si verificassero mutamenti nei tassi di partecipazione alla forza lavoro, la Russia si troverebbe ad affrontare una carenza di oltre 20 milioni di lavoratori e il rapporto di dipendenza potrebbe aumentare di oltre il 50%, causando un calo della produttività e gravi problemi al welfare. Statistiche allarmanti e ben comprese dal Cremlino che, proprio per rispondere a questa necessità, si è trovato costretto ad approvare la controversa e impopolare riforma del sistema pensionistico dell’ottobre scorso.
Uno dei rischi strategici insiti nel calo della fertilità risiede, inoltre, nella possibile rarefazione delle reclute da destinare alle forze armate. Secondo il rapporto World Population Prospects delle Nazioni Unite del 2020, in Russia v’erano 14,25 milioni di uomini di età compresa tra i 20 ei 34 anni, mentre nel 2050, questi saranno 12,91.
Secondo lo scenario più probabile, il numero dei diciottenni diminuirà di quattro volte entro il 2050 e al fine di conservare l’attuale numero di effettivi per mantenere l’attuale mobilitazione, la Russia si troverà costretta ad aumentare il tasso di militarizzazione al 7,79% nel 2025 e all’8,01% nel 2030 o estendere il periodo di coscrizione. In entrambi i casi si tratterà di un duro colpo per lo stato di diritto e il sistema produttivo. Il declino delle forze armate potrebbe intaccare, inoltre, la proiezione geopolitica russa in tutti i quadranti in cui è impegnata, in un periodo di forte crescita degli effettivi e militarizzazione dei competitor internazionali.
La demografia è destino?
Avendo ereditato un Paese in ginocchio, schiacciato dalle divisioni interne, dalle disfunzionalità economiche e pressato dall’incedere dell’influenza occidentale, Putin ha fatto del riposizionamento della Russia nell’alveo delle grandi potenze un mantra, cercando di rovesciare i tragici indici socioeconomici di epoca eltsiniana ed inaugurando una politica estera di ampio respiro.
Fin dal 2000, la necessità di porre un freno all’emorragia demografia è stata una costante priorità dei governi Putin, tentando di incentivare i russi ad avere famiglie più numerose attraverso generosi sovvenzionamenti e lanciando un ambizioso piano per attirare milioni di migranti russofoni. Il Cremlino, tramite frequenti sanatorie, facilitazioni nell’ottenimento del visto e accordi con i Paesi di provenienza ha inoltre cercato di incrementare il numero degli immigrati centroasiatici, risvegliando pulsioni scioviniste.
Dai dati e dalle statistiche pubblicate pare che gli sforzi dell’amministrazione stiano fallendo. Eppure, è piuttosto precoce condannare la Russia ad un inesorabile inverno demografico in quanto, seppur convitato di pietra all’interno delle dinamiche di potenza, la demografia non è destino e tramite misure avvedute il Paese potrebbe tamponare l’emorragia. Se da un lato è sicuramente da accantonare il conferimento di bonus economici e incentivi “a pioggia” se non accompagnati da un miglioramento degli standard di vita, il Cremlino dovrà investire in welfare e misure che promuovono abitudini più virtuose tra la popolazione.
Riforme che aiutino a superare un’economia asfittica, creazione di posti di lavoro, invertano o tamponino la fuga dei cervelli e attirino migranti qualificati, nonché un necessario superamento delle disparità sociali e l’attuazione di misure di sostegno e assistenza socioeconomica. Ciònonostante, impegnata su più fronti nello scacchiere geopolitico, appare altamente improbabile che l’attuale leadership trovi le risorse e la lungimiranza per mettere in atto iniziative coerenti e di lungo respiro.