Braccate dal fuoco incrociato di Stati Uniti e UE, Russia e Cina fanno fronte comune sul piano internazionale. Tra interscambio commerciale e intese politiche, si parla di “punto apicale” delle relazioni bilaterali. L’alleanza ha però più di un punto debole: la competizione in Asia Centrale e l’Artico insegnano.
In un mondo popolato da creature fantastiche, da lontano probabilmente si farebbe fatica a distinguere un’aquila da un dragone. Entrambi si librerebbero in volo con imperiosità e naturalezza, quali autentici padroni dei cieli. Nonostante le apparenze, però, aquile e draghi sono tutt’altro che uguali: non solo per le differenze biologiche tra uno pseudo-rettile (drago) e un uccello (aquila), ma soprattutto per il rapporto di forza. Pare infatti abbastanza difficile che gli artigli di un’aquila riescano a bilanciare, anche solo lontanamente, le narici fiammanti di un drago.
Poco o nulla cambierebbe che l’aquila in questione fosse bifronte – come quella che colora i tricolori presidenziali russi. Oppure come quelle che adornano le bandiere di altri Stati slavi come Albania, Montenegro e Serbia. Nel caso russo, in particolare, l’aquila a due facce sembra avere un significato politico preciso: il volatile, simbolo di potenza, guarda contemporaneamente a Est e ad Ovest, a Ponente e Levante. All’Europa e all’Asia, quindi – sintesi simbologica pressoché perfetta di quel carattere eurasiatico insito nel DNA imperiale russo da tempo immemore (o quantomeno dal momento stesso in cui la Russia ha iniziato a nutrire ambizioni proto-imperiali). Da qui la domanda, tutt’ora inevasa (e inevadibile), su se Mosca sia da considerarsi una potenza più “europea” o più “asiatica”.
Ciò che è certo è che l’aquila guardi ormai da decenni all’Est del Dragone cinese con una sensazione che ondeggia tra la stima e la preoccupazione. Non c’è quasi vertice bilaterale sino-russo che si concluda senza solenne ribaditura che la collaborazione tra Mosca e Pechino abbia raggiunto il suo apice storico. Anche in occasione dell’ultimo incontro, tenutosi lo scorso 23 marzo a Guilin tra Sergej Lavrov e Wang Yi, non è mancato un puntuale riferimento alla necessità di espandere ulteriormente la cooperazione economico-commerciale – ma anche alla convenienza di far fronte comune contro le minacce poste da alcuni Paesi “non amici” (leggasi Stati Uniti e, in misura minore, Unione europea). È d’altronde pacifico che Russia e Cina abbiano tutto il vantaggio di sostenersi a vicenda nella contrapposizione a quelle che i due Stati avvertono come pretese statunitensi di “evangelizzazione” del mondo al verbo democratico-liberale.
Su tali basi, quindi, quella tra l’aquila e il dragone è stata spesso definita un’alleanza. Il che è sostanzialmente vero in un‘ottica globale – ma non proprio a livello regionale, dove il rapporto tra Pechino e Mosca è forse piuttosto categorizzabile come una joint-venture. Con l’ormai imminente ritiro delle ultime truppe statunitensi dall’Afghanistan, Washington ha formalizzato l’avvio della sua nuova dottrina-principe in politica estera: una rivisitazione del pivot to Asia obamiano esponenzialmente più vigorosa ed estesa (al c.d. Indo-Pacifico). Ciò facendo, ha di fatto abbandonato l’Asia centrale e i Paesi “-stan” – quattro dei quali (Kazakistan, Kirghizistan, Turkmenistan e Uzbekistan) sono diretti eredi di precedenti repubbliche sovietiche. Si parla dello stesso centro-Asia che all’inizio del secolo scorso era stato, a un tempo, obiettivo e premio del c.d. Grande gioco tra russo-zaristi e britannici.
Quella vasta porzione di terra si è oggi trasformata in uno dei convitati di pietra dei vertici russo-cinesi. Già il Segretario di Stato di Carter, Zbigniew Brzezinski, sosteneva che il controllo dell’Asia centrale costituisse la chiave per il controllo della massa eurasiatica, che a sua volta è la chiave per la supremazia globale. La Russia mantiene ancora oggi un’influenza preponderante nell’area, ma l’inarrestabile ascesa della Repubblica Popolare ha parzialmente rimescolato le carte. Non solo il mega-progetto cinese di “Nuova Via della seta” ha fatto del triangolo Almaty-Samarcanda-Dušanbe (passando per Biškek) uno snodo fondamentale della direttrice economica, ma il Governo di Pechino figura altresì tra i principali fornitori di alta tecnologia ai governi dell’area – avendo di fatto scavalcato i russi. Per di più, Pechino si è ormai affermata come principale partner commerciale dei detti Paesi: basandosi sui dati pre-pandemia, l’interscambio totale si aggira intorno ai 32 miliardi di dollari, contro i 28,5 della Russia (che però è primo partner del Kazakistan, principale economia dell’area). Beninteso, Mosca può ancora fare affidamento su una consistente influenza politica ed è essa stessa membro dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (OSC) – progetto multilaterale per l’Asia centrale partorito da Pechino nel 2001.
Tuttavia, è ragionevole credere che il Cremlino guardi al crescente attivismo internazionale del Dragone non solo con soddisfazione – perché, come si diceva, consente all’asse tra Russia e Cina di fronteggiare unitamente USA e UE– ma anche con moderata preoccupazione. Il crescente attivismo internazionale di Xi Jinping si è finora concentrato sull’Estremo Oriente (Mar Cinese Meridionale, Mar Cinese Orientale, questione taiwanese, Hong Kong), ma nulla vieta che in un futuro prossimo la politica estera pechinese non possa decidere di manifestare la propria assertività anche nell’immediato Ovest centro-asiatico.
E quindi, più o meno esplicitamente, Mosca corre ai ripari. Non è un caso che la “diplomazia del vaccino” russa, relativa agli accordi di produzione e somministrazione dello Sputnik V, abbia interessato da vicino il Centro-Asia – specialmente il Kazakistan di Toqaev. Al contrario, la Cina ha intensificato la sua “diplomazia sanitaria” con l’Uzbekistan di Mirziyoyev, che considera gli investimenti cinesi un elemento fondamentale per la crescita dell’economia nazionale, e perciò è diventato interlocutore privilegiato di Xi. La circostanza per cui nel Kazakistan filo-russo, a fine marzo, si siano verificate notevoli manifestazioni di piazza anti-cinesi, non fa altro che aggiungere altra carne al fuoco. Così come il fatto che molti russi siberiani guardino ormai da tempo al vicino cinese come a un’ingombrante e pericolosa presenza per un’area, la Siberia, ricca di risorse naturali ma povera di abitanti (esatto contrario del vicino, il più popoloso Paese al mondo).
Peraltro, la collaborazione-competizione tra Russia e Cina non si limita alle lande asiatiche, ma arriva fino all’Artico. Anche a causa della difficoltà di accesso ai mercati occidentali a causa delle sanzioni, i russi hanno ben accolto gli investimenti cinesi nello sviluppo della rotta del Mare del Nord e nella costruzione di infrastrutture. Ricadrebbe infatti nella ZEE di Mosca la maggior parte delle riserve di gas naturale e petrolio della regione – una parte delle quali diverrebbe verosimilmente oggetto di accordi commerciali con un’economia voracemente energivora come quella cinese. Ciononostante, il Cremlino è attento a far sì che la geograficamente lontana Cina non si spinga fino a considerarsi un attore del tutto autonomo (e normativamente rilevante) nell’Artide – il che rende la cooperazione russo-cinese nell’area di natura molto più commerciale che politica.
Per ora i benefici (globali) della joint-venture tra Russia e Cina superano ampiamente gli svantaggi, ma lo status quo è tutt’altro che immodificabile. Insomma, l’aquila e il dragone continueranno a volare insieme, ma non senza circospezione.