Il golpe dello scorso febbraio ha riacceso l’interesse russo nei confronti del Paese del Sud-est asiatico, snodo centrale tra Cina e India, dove continuano le manifestazioni e i disordini. Sul piatto, per il Cremlino, non c’è solo la cooperazione militare ma anche la penetrazione nell’Oceano Indiano e la difesa del principio di sovranità. La questione dei Rohingya è spinosa anche per Mosca.
Era il 1972 quando i primi dodici studenti birmani arrivarono all’Università statale di Mosca, mentre sei studenti russi si immatricolavano all’Università di Yangon. Il primo scambio internazionale tra i due Paesi rappresentava la diretta conseguenza di un processo di avvicinamento iniziato già subito dopo l’indipendenza birmana. A pochissime settimane da questa, nel lontano 1948, l’Unione Sovietica si era mostrata infatti immediatamente interessata a scambiare missioni diplomatiche. Fu però necessario aspettare due anni prima di avere uno scambio effettivo di rappresentanze, a causa del conflitto interno.
Nel 1955, poi, l’allora segretario del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, Nikita Chruščëv, e il suo primo ministro, Nikolaj Bulganin, intrapresero un viaggio nel Sud-est asiatico. La Birmania rappresentava una tappa decisiva per forgiare un legame con il Movimento dei Paesi non allineati. L’esito di tale incontro si tradusse concretamente in un comunicato congiunto sulla politica estera sovietica. La dichiarazione metteva infatti nero su bianco una serie di punti chiave dalla risoluzione della Guerra sino-indiana alla riunificazione delle due Coree.
Mosca si era mostrata fin da subito assertiva, ma il sogno di Chruščëv si infranse a seguito del colpo di stato militare del 1962. Con i militari al potere, le relazioni tra Myanmar ed Unione Sovietica andarono scemando per risollevarsi solo a cavallo del nuovo secolo.
L’assist del golpe militare
Recentemente il Myanmar è tornato sotto i riflettori dell’opinione pubblica mondiale. Il golpe militare che ha scosso il Paese rappresenta infatti la punta dell’iceberg delle tensioni interne. Secondo la vulgata delle forze armate, le elezioni dello scorso novembre che hanno favorito la Lega Nazionale per la Democrazia, il partito capeggiato da Aung San Suu Kyi, sarebbero state manipolate.
Lo scorso primo febbraio il premio Nobel per la pace e de-facto leader del Paese, Aung San Suu Kyi, è stata arrestata. Immediatamente dopo l’incarcerazione è scattato lo stato di emergenza nel Paese. La capitale Naypyidaw è stata bloccata e investita da un’ondata di veicoli militari. Carri armati che, tra l’altro, si sono rivelati essere di produzione russa. Da lì il caos.
Interessanti le “coincidenze” temporali intorno all’accaduto. Proprio qualche giorno prima del golpe, il ministro della Difesa russo Sergej Šojgu era volato a Naypyidaw. La motivazione ufficiale dietro questo viaggio riguardava la celebrazione del sessantacinquesimo anniversario delle relazioni diplomatiche tra i due Paesi. La realtà dei fatti rivela invece la conclusione dell’ennesimo accordo sulla vendita di armamenti. Ma non è finita qui. Solo qualche settimana dopo il golpe, il viceministro della Difesa russo, Aleksandr Fomin, è stato ricevuto durante la Giornata delle forze armate.
Dalla Russia con amore
L’interesse russo nei confronti del Myanmar rappresenta solo una riconferma. Non è stato infatti il golpe a far strizzare l’occhio di Mosca verso il Paese per la prima volta. Gli ultimi venti anni hanno segnato un’incredibile accelerazione nei rapporti tra Russia e Myanmar.
Secondo uno studio del 2020 condotto dallo Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI), il 15% delle importazioni totali di armamenti in Myanmar proviene proprio dalla Federazione Russa. Traguardo importante che ha permesso al Cremlino di fissarsi sul podio insieme ad altri due competitor di rilievo, Cina e India. Ma già all’inizio del nuovo millennio la strada della cooperazione militare tra i due Paesi si prefigurava aperta. La transazione più consistente fu quella avvenuta nel 2009: un contratto di 400 milioni di euro per la vendita dei caccia MiG-29. Nel 2016 fu poi la volta di un vero e proprio accordo sulla cooperazione tecnico-militare. Accordo che passò un po’ in sordina all’epoca, ma che tutt’ora permette alla Russia, tra le altre cose, di utilizzare i porti birmani per operazioni di rifornimento e cabotaggio per le navi da guerra.
Col passare del tempo l’intesa tra i due Paesi si è consolidata. Basti pensare che le forze armate birmane hanno addirittura partecipato all’ultima edizione dell’esercitazione militare Kavkaz-2020 promossa dalla Federazione Russa. Mosca si è anche impegnata a fornire assistenza, ad esempio nell’addestramento delle forze armate o nell’utilizzo di droni da guerra. Proprio lo scorso gennaio è stato concluso un ulteriore contratto per la vendita di droni Orlan 10E, sistemi Pantsir-S1 ed apparecchiature radar.
La giunta militare serve a Mosca
Gli ultimi eventi rappresentano un’ottima opportunità per Mosca per una serie di motivi. Innanzitutto, il Cremlino ha definito fin da subito il colpo di stato come “un affare prettamente interno ad uno Stato sovrano”. Un chiaro riferimento a chi, oltreoceano, ha fin da subito condannato l’accaduto. In un periodo in cui Mosca stessa si trova sotto pressione dall’Occidente per la questione dei diritti umani, la crisi in Myanmar sembra proprio calzare a pennello. Questa, infatti, fornisce l’ennesimo pretesto per sostenere la tesi del non intervento da parte di attori esterni. Insieme a Pechino, Mosca ha fermamente condannato qualsiasi possibile risoluzione adottata in seno alle Nazioni Unite su proposta di Washington e di altri Paesi occidentali. Tanto che, nei giorni scorsi, il Consiglio di sicurezza dell’ONU non è riuscito ad ottenere il plenum necessario all’attuazione di una dichiarazione sullo stato di emergenza nel Paese.
Oltre all’interesse puramente economico derivante dalle esportazioni di armamenti, Naypyidaw potrebbe offrire uno sbocco importante per il Cremlino sull’Oceano Indiano. Situato su uno snodo che unisce la Cina e l’India al Sud-est asiatico, il Myanmar si trova infatti in una posizione geostrategica davvero particolare.
Il Paese potrebbe inoltre rappresentare una porta d’ingresso per consolidare i rapporti con l’ASEAN, l’Associazione delle Nazioni del Sud-est asiatico. Le relazioni tra Russia e Sud-est asiatico sono sempre state dominate dalla centralità dell’ASEAN. Nonostante la Federazione abbia un impatto relativamente limitato a livello economico e securitario nella regione, l’interesse verso di essa rimane marcato soprattutto nell’ottica di un triangolo tra Washington, Mosca e Pechino.
Per la Russia, però, gli eventi in Myanmar non hanno solo risvolti geopolitici. La violenta repressione in atto va infatti a colpire soprattutto le minoranze che vivono nel Paese, discriminando in particolar modo quella musulmana dei Rohingya. La posizione russa a riguardo ha subito un’evoluzione particolare. Durante gli attacchi del 2017, Mosca si distinse per la decisione di appoggiare i militari, affibbiando ai Rohingya l’etichetta dell’estremismo.
Questo, tuttavia, causò inaspettatamente una reazione interna. Ramzan Kadyrov organizzò un’imponente manifestazione nella città di Groznyj, in Cecenia, a favore dei musulmani birmani. Il leader ceceno stesso si espresse duramente e si mostrò pronto ad andare contro il volere di Putin pur di portare avanti questa battaglia. L’islam è la seconda religione più diffusa in Russia e la questione dei Rohingya sembra essere un tasto alquanto dolente. Motivo per cui il Cremlino è stato costretto a rivedere la propria posizione.
Mentre il mondo si è riscoperto unito nel condannare la giunta militare, la Russia serve al Myanmar, tanto quanto il Myanmar serve alla Russia. Se i militari birmani non possono fare a meno del veto russo in seno al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, Mosca non può farsi scappare l’occasione del golpe per affondare i propri artigli nel Sud-est asiatico.
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