Chiunque goda di una certa familiarità con la storia russa avrà notato come essa sia punteggiata da eccezionali ma ricorrenti fasi di orrore. Le minacce esistenziali rappresentano uno dei pilastri portanti sui quali si regge l’identità nazionale del Paese e fanno da premessa all’introduzione di figure salvifiche. Aleksandr Jaroslavič, meglio conosciuto con l’appellativo di Nevskij, è una di esse ed in quanto tale viene tradizionalmente elevato a figura emblematica di un’epoca dai cambiamenti radicali.
Nel XIII secolo gli eredi di Vladimir il Santo continuano a regnare indiscussi sulla Rus’ di Kiev, ma il sistema delineato dal vecchio sovrano e codificato dai suoi successori mostra evidenti segni di cedimento. Con l’espandersi della dinastia e il moltiplicarsi di principati ereditari, l’autorità dei gran principi di Kiev viene gradualmente erosa, indebolendo i legami dinastici che avevano conferito sino a quel momento una relativa coesione allo Stato. Noncuranti dei tradizionali ordini successori e dotati di risorse maggiori, i principi di Vladimir, Smolensk, Chernigov e Galizia si contendono di continuo il controllo della capitale.
Il principe Jaroslav Vsevolodovič di Vladimir-Suzdal’, coinvolto negli scontri interdinastici, nel 1236 invia il figlio Aleksandr a governare in sua vece il distretto di Novgorod. La città rappresenta un unicum all’interno del panorama russo e, priva di un casato autoctono, gode del diritto di scelta e di nomina del proprio principe. Tale libertà ne fa il luogo di un’intensa competizione tra i potenti del regno, interessati come a Kiev a porvi i propri discendenti sul trono e ad espandere di conseguenza la loro influenza. Novgorod, tuttavia, non è di facile gestione: la città è governata da una élite gelosa delle proprie prerogative ed è abituata a sfruttare le competizioni esterne per assicurarsi più ampi margini di autonomia. Nondimeno, la difesa dei suoi vasti possedimenti, tradizionalmente esposti alla pressione dei vicini occidentali, dipende dalla forza e dall’abilità marziale dei principi forestieri che la guidano. Quello tra la sua popolazione e i principi è un rapporto complicato: ognuno è in cerca di un equilibro che renda tollerabile e vantaggiosa la presenza dell’altro.
Il principe Aleksandr adempie appieno all’incarico paterno, mantiene il controllo della città e vi consolida l’influenza del casato di Vladimir. Cosa ancor più importante, fa onore al primo dei doveri conferitigli dalla posizione occupata: difendere i confini del distretto. La maggior parte dei principi russi è impegnata in una caotica e inefficace resistenza all’avanzata mongola, capace di sottomettere tra il 1237 e il 1240 l’intera confederazione kievana. A differenza degli altri principati, quello di Novgorod ne esce virtualmente illeso e il suo principe si appresta a difendere i confini occidentali presso i quali spingono nemici meno pericolosi.
La Carelia e il golfo di Finlandia costituiscono da decenni un punto di frizione tra svedesi e Novgorod, entrambi in competizione per il controllo delle tribù finniche e dei beni commerciali da esse fornite. Giunta la notizia di uno sbarco svedese in prossimità del fiume Neva, il principe Aleksandr conduce il proprio seguito militare verso lo scontro, sbaragliando il nemico il 15 luglio del 1240. Il ritorno a Novgorod non è altrettanto semplice, poiché un cambio degli equilibri interni lo spinge ad abbandonare momentaneamente la città, facendovi successivamente ritorno per fronteggiare l’avanzata teutonica. Unite le milizie cittadine alle forze inviategli dal padre, il principe si dirige verso ovest, non prima d’aver ristabilito la propria autorità in città giustiziando gli istigatori della sedizione – che lo aveva spinto ad abbandonare il trono cittadino l’anno precedente. Liberati i centri occupati dai tedeschi, i due eserciti si scontrano in prossimità del lago Peipus il 5 aprile del 1242. Vittorioso, Aleksandr fa rientro a Novgorod.
Le spinte che conducono alla battaglia della Neva e quella sul lago ghiacciato non costituiscono minacce esistenziali, né tantomeno pongono fine alla lunga serie di conflitti regionali che si ripresentano nel tempo. Lo scontro con gli svedesi andrebbe collocato all’interno di un più vasto susseguirsi di schermaglie di confine, mentre l’avanzata tedesca, sebbene rappresenti una minaccia concreta, non è una invasione su scala maggiore ma un tentativo di trarre profitto dalla situazione di disordine nella quale versano i principati russi. Al momento dello scontro i cavalieri teutonici sono maggiormente impegnati nella sottomissione delle tribù prussiane, potendo dedicare al fronte russo un numero di forze esiguo, di gran lunga inferiore alle cifre ipotizzate dagli storici sovietici. È la conquista mongola a conferire a entrambe le battaglie una valenza epocale. Dinanzi all’umiliazione generale, agiografi e cronisti tentano di far passare in secondo piano il giogo tataro, denunciando l’aggressione militare dell’Occidente e ingigantendo entrambe le vittorie attraverso l’uso di un linguaggio epico e religioso.
La seconda parte del regno di Aleksandr è dominata dalla presenza mongola e dai rapporti di sudditanza che i principi dovettero stringere coi signori delle steppe. Interessati principalmente all’esazione di tributi e alla coscrizione di soldati, i mongoli non mutano la cornice politica locale ma impongono ai Rjurikoviči l’onere di recarsi in atto di sottomissione presso le loro corti, conferendo in cambio il riconoscimento del diritto di governo per mano del khan. Tra i principi russi Aleksandr è il più disposto alla cooperazione, probabilmente perché consapevole dell’impossibilità di sottrarsi al potere tataro e per questo pronto a servirsene per soddisfare i propri obiettivi dinastici. Una politica di appeasement e un atteggiamento ossequioso gli permettono di recuperare il trono di gran principe di Vladimir, sottrattogli dal fratello minore in seguito alla morte del padre e all’esautorazione dello zio. Con la morte del gran khan nel 1251, Aleksandr si presenta alla corte di Sarai, capitale dell’Orda d’Oro, per ottenere l’ennesima conferma della propria prerogativa di governo. Diversamente, il fratello minore Andrej rimane in Suzdalia e il gesto viene interpretato come un affronto. Dal Volga partono due spedizioni, indirizzate l’una contro il gran principe di Vladimir, l’altra contro il principe di Galizia-Volinia, entrambi promotori di un movimento di resistenza al dominio mongolo.
Una volta costretto il fratello alla fuga, nel 1252 Aleksandr entra trionfante nella città di Vladimir, dove si insedia sul trono paterno, ristabilendo la propria preminenza all’interno della dinastia. L’evento inaugura una nuova fase di cooperazione con i khan di Sarai che, se da un lato non espone i principati da possibili rappresaglie, dall’altro rende più evidente la sottomissione russa. Aleksandr è un attento osservatore dei loro comandi e si impegna a reprimere ogni forma di dissenso interno alla loro autorità. La politica adottata nei confronti di Novgorod ne mette in mostra i risvolti pratici: il principe scorta gli ufficiali tatari nel 1257 e nel 1260 affinché la popolazione acconsenta ad essere censita. Dinanzi al fallimento del primo dei due tentativi, il gran principe viene convocato dal khan, il quale gli mette a disposizione dei reparti militari per spingere la città a cooperare.
Il capitale politico maturato attraverso i continui contatti con i khan consente ad Aleksandr di attenuare gli aspetti più repressivi del giogo tataro. Nel 1262, quando le città della Rus’ nord-orientale si sollevano contro gli esattori mongoli, il principe viene convocato per un’ultima volta presso l’Orda, dalla quale fa ritorno senza che alcuna rappresaglia venga scagliata contro le città russe. Afflitto da un malore, nel viaggio di ritorno viene colto dalla morte presso la città di Gorodet. Era il 14 novembre 1263.
Ai propri discendenti Aleksandr lascia una Rus’ assai diversa. I contatti con l’Occidente non vengono recisi, ma i principi russi iniziano a gravitare in maniera sempre più evidente verso l’Asia centrale. La distruzione mongola di Kiev nel 1240 e la progressiva conquista dei territori meridionali per mano lituana, verso la quale le difese organizzate dal principe sono insufficienti, trasformano il quadrante nord-orientale nel nuovo fulcro politico ed economico del regno. L’indebolimento dei legami dinastici e il moltiplicarsi dei rami cadetti rende ancor più evidente quel processo di frammentazione territoriale che sancisce l’inizio di una nuova fase storica e l’ascesa di nuovi protagonisti.
L’eredità maggiore del principe Aleksandr risiede tuttavia nell’immagine idealizzata di difensore della patria che cronisti e agiografi elaborano per le generazioni successive. Venerato in qualità di “principe-santo”, Aleksandr supera i confini temporali della propria epoca, trasformandosi nel più resiliente e malleabile eroe nazionale russo. Canonizzato nel 1543, la sua protezione viene invocata dai principi moscoviti in cerca di legittimazione dinastica, da Pietro il Grande che ne trasferisce le reliquie a San Pietroburgo nel 1723 (per rimarcare l’ascesa della nuova capitale imperiale) e da Stalin alle prese con l’invasione nazista. In ogni occasione le imprese vengono espanse e riscritte, rielaborate a seconda delle esigenze del momento, trasformando il principe Aleksandr in un tassello fondamentale del codice genetico russo.
Nel 2014, in uno degli ultimi esempi di devozione nazionale, e in occasione delle ricorrenze che marcano l’espulsione dal territorio nazionale delle forze polacche e lituane nel XVII secolo, il patriarca di Mosca Kirill inaugura una mostra dedicata alla dinastia dei Rjurikoviči. L’operato del principe Aleksandr è descritto facendo ricorso ai giudizi espressi dallo stesso capo della Chiesa russa e dal ministro degli Esteri Lavrov, che danno piena voce al corso intrapreso dalla Russia di Vladimir Putin: difesa della nazione e della fede, realismo politico, rafforzamento dei confini occidentali, sguardo rivolto ad est.
Saverio Albertano
Bibliografia
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