Le relazioni economiche tra l’Asia centrale e la Cina non sono mai state così floride. La strategia geoeconomica cinese delle Vie della Seta sta facendo affluire imponenti capitali verso una regione che è alla disperata ricerca di investitori stranieri. Se il costo della collaborazione per i governi centro-asiatici è quello di chiudere un occhio su quanto sta avvenendo nello Xinjiang cinese, anche gli uiguri diventano sacrificabili.
Il vertice dello scorso 12 maggio a Xi’an, in Cina, tra il ministro degli esteri cinese e gli omologhi delle cinque repubbliche centro-asiatiche ha riacceso l’attenzione del grande pubblico sull’interesse che Pechino ha per l’Asia centrale. L’incontro ha portato alla firma di un memorandum e a tre dichiarazioni congiunte. In particolare, si è fatto riferimento allo sviluppo della logistica in Asia centrale e alla cooperazione in ambito di sicurezza, smart cities, medicina, cultura e archeologia. I sei Stati hanno fatto, inoltre, una dichiarazione sull’Afghanistan, impegnandosi a sostenere il governo di Kabul nel processo di transizione in corso. La Cina si è dimostrata in questo ambito molto proattiva, ed ora sta cercando di capitalizzare quanto investito nella regione sul piano economico, politico e culturale.
In questo incontro, tuttavia, un tema è rimasto scrupolosamente fuori da ogni dichiarazione: la questione dello Xinjiang. Allettati dalla possibilità di ricevere cospicui fondi dalla Cina, i cinque Paesi si sono tenuti alla larga da qualunque dichiarazione che potesse mettere in dubbio la legittimità cinese sul Turkestan orientale. Nonostante oggi a subire le persecuzioni non siano più solo gli uiguri, ma anche i kazaki e i kirghisi che vivono in Cina.
Trent’anni di relazioni
Le relazioni tra Asia centrale e Cina non sono mai mancate nel corso dei secoli, ma è solamente a partire dalla caduta dell’Unione Sovietica che si è manifestata una reale capacità cinese di penetrare nella regione. Iniziato come un rapporto tra Paesi confinanti, quello con la Cina si è trasformato molto presto in cooperazione commerciale.
Emblematico è l’esempio della principale organizzazione che riunisce il Dragone agli –stan, l’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai. Si tratta di una struttura nata per combattere i pericoli del radicalismo, del terrorismo e del separatismo. Oggi questa è uno dei principali mezzi di penetrazione cinese nella regione centro-asiatica. L’interessamento del Celeste Impero per l’Asia centrale ricalca pienamente l’evoluzione di quest’organizzazione.
La preoccupazione principale che ha portato Pechino a dialogare con questi Stati era inizialmente difensiva. Il rischio era, infatti, che con il suo intervento in Afghanistan Washington schierasse missili nella regione. La crescita economica della Cina, complice il lento declino russo e le incomprensioni tra Paesi centro-asiatici e Occidente, ha poi favorito un’estensione delle supply chain cinesi verso i giacimenti del Mar Caspio e la valle del Fergana. In questo processo gli –stan hanno raggiunto l’obiettivo di diversificazione degli investimenti al di fuori degli schemi tradizionali di assetto post sovietico.
Negli ultimi anni, inoltre, il progetto geoeconomico delle Vie della Seta la Cina ha convogliato risorse importanti per lo sviluppo infrastrutturale e commerciale della regione centro-asiatica. Tali fondi spesso sono stati destinati ad aziende vicine alle classi dirigenti dei cinque Stati, in modo da rafforzarne la fedeltà verso Pechino. Quest’ultimo aspetto non va sottovalutato, soprattutto a fronte di una sfiducia popolare (e comune a tutti e cinque i Paesi) verso la Cina.
La questione dello Xinjiang
La maggiore causa di sfiducia verso il Dragone è costituita dalla politica repressiva e di aperta violazione dei diritti umani nella regione turcofona dello Xinjiang. Iniziata come una campagna rivolta agli uiguri, si è trasformata negli ultimi anni in un approccio generalizzato della Cina verso tutte le popolazioni turcofone dello Xinjiang. Poiché insieme agli oltre undici milioni di uiguri, nella regione vivono un milione e mezzo di kazaki e duecentomila kirghisi, le violazioni compiute dalla Cina hanno avuto una notevole eco anche a Nursultan e Bishkek.
Tuttavia, se negli anni Novanta era possibile trovare numerosi esuli dello Xinjiang in questi due Stati, in seguito alle crescenti relazioni politico-commerciali con Pechino le maglie della libertà di opinione si sono ristrette. Progressivamente, sia Biškek sia Nursultan hanno accettato sempre meno profughi e, in molti casi, hanno avviato dei rimpatri in Cina. Questo pur sapendo che molto probabilmente le persone rimpatriate sarebbero state deportate o comunque soggette a vessazioni.
Le popolazioni centro-asiatiche, ciononostante, restano scettiche sulla reale convenienza di una collaborazione con Pechino. Anche se i vantaggi economici sono evidenti, con nuove infrastrutture e un importante mercato di sbocco per l’energia, le difficoltà legate alla cooperazione lo sono altrettanto. Molto spesso le aziende cinesi che operano in loco attuano discriminazioni nei confronti degli operai centro-asiatici, pagandoli di meno rispetto agli operai cinesi. Ciononostante, le aziende pretendono turni di lavoro più lunghi rispetto alla media dell’Asia centrale. L’impatto reale degli investimenti cinesi sulle cinque economie va, dunque, ridimensionato alla luce di queste criticità.
Un approccio ambivalente verso la Cina
L’Asia centrale, regione immediatamente alle porte della Cina, rappresenta un obiettivo strategico per la diversificazione degli approvvigionamenti energetici. Con la pandemia, inoltre, i legami con Pechino si sono rafforzati ulteriormente attraverso la cosiddetta diplomazia dei vaccini. L’approccio verso questa collaborazione, tuttavia, lascia spazio a due diverse interpretazioni.
Le classi politiche centro-asiatiche si sono progressivamente orientate verso una maggiore apertura politica e commerciale alla Cina. Significativi sono gli scambi di personale militare e amministrativo, così come di tecnici che vengono inviati a Pechino per formazione. Importanti sono anche gli scambi culturali e il ruolo giocato dai Centri Confucio. Questi favoriscono un’istruzione di qualità e l’insegnamento della lingua cinese, che apre a maggiori possibilità di impiego sia in Asia centrale sia in Cina.
La popolazione civile, d’altro canto, preferisce guardare ad ovest piuttosto che ad est. Il malcontento espresso nei confronti della Cina, sebbene sottoposto a restrizioni sempre maggiori, esiste in tutti e cinque i Paesi. Anche in Uzbekistan, Paese che durante la pandemia ha sviluppato un vaccino in collaborazione con Pechino, prevale lo scetticismo in merito ad un avvicinamento ulteriore al Celeste Impero. Nei due Stati maggiormente sensibili a quanto stia accadendo nello Xinjiang, Kazakistan e Kirghizistan, la sfiducia verso la Cina è quanto mai evidente.
Questa ambivalenza nell’approcciarsi alle relazioni con Pechino non potrà, però, durare a lungo. Se non saranno le popolazioni centro-asiatiche a convincersi della convenienza di avere maggiori legami economici con il vicino orientale, i governi non potranno non prenderne atto. Ed in quel caso, dovrebbero essere loro a fare un passo indietro.
Ammesso che Pechino sia disposta a tollerarne.