Contrariamente a quanto si possa pensare, a Bruxelles non manca una politica estera nei confronti di Mosca. Il vero nodo gordiano è che, tra l’UE e la Russia, di politiche estere ce ne sono fin troppe. Dall’ostilità dei Baltici alla conciliazione caldeggiata da Roma e Berlino, passando per la grandeur di Parigi.
Quando, all’inizio di febbraio, l’Alto Rappresentante UE Josep Borrell era in viaggio verso Mosca per incontrare l’omologo Sergej Lavrov (o semi-omologo, non essendo l’UE un’entità propriamente statale per il diritto internazionale), in molti preannunciarono parole di fuoco. Da giorni, infatti, l’opinione pubblica accusava il Cremlino di essere la longa manus dietro l’avvelenamento con agente novičok dell’attivista Aleksej Naval’nyj (avvenuto nell’agosto 2020). La questione, esasperata dalla successiva incarcerazione di Naval’nyj al suo ritorno in Russia, aveva scatenato un’ondata di risentimento e accuse nei confronti di Putin e sodali.
I pronostici della vigilia si rivelarono comunque esatti, perché parole di fuoco effettivamente ci furono – ma non esattamente secondo il canovaccio che ci si sarebbe potuti immaginare. A tuonare contro l’interlocutore non fu infatti Borrell, bensì il capo della diplomazia russa. In quell’occasione Lavrov bollò pubblicamente l’UE come “un partner inaffidabile” e vassallo degli statunitensi. Come se non bastasse, proprio mentre Borrell metteva piede sul suolo moscovita, le agenzie russe davano notizia dell’espulsione di tre diplomatici polacchi, svedesi e tedeschi – con l’accusa di aver preso parte alle manifestazioni popolari per la liberazione dell’attivista anti-Putin. In molti, dopo la Caporetto di Borrell alla corte di Putin, chiesero a gran voce le dimissioni dell’ex ministro degli Esteri spagnolo. Una misura che si sarebbe probabilmente rivelata funzionale solo a sfogare la rabbia per la non ineccepibile oratoria del funzionario, visibilmente in difficoltà nell’incontro bilaterale.
Un vecchio adagio catoniano recita: “rem tene, verba sequentur”; ovvero, “conosci a fondo la questione, le parole seguiranno”. Orbene, non erano probabilmente le parole che mancavano a Borrell, quanto la sostanza. In soldoni: Bruxelles fatica a partorire una “politica europea sulla Russia”, ovvero a sciogliere le trame di 27 politiche estere nazionali per dare forma a un’azione comune europea. Beninteso, nel Vecchio Continente non manca certo la conoscenza socio-politica delle cose russe: è infatti probabile che gli europei, da Lisbona a Tallinn, conoscano Mosca addirittura meglio degli statunitensi. A complicare il discorso è però la contemporanea presenza di più “politiche russe” a livello nazionale – cui si aggiunge l’ulteriore distinzione tra politica estera in senso stretto e politica più propriamente commerciale.
La prima “politica russa”, non necessariamente in ordine d’importanza, è quella dei Paesi UE dell’ex Patto di Varsavia: il gruppo di Visegrád (Ungheria esclusa) e i Baltici. Questi sono i fautori più calorosi di una strategia di contrasto muro-contro-muro nei confronti del Cremlino, sia per ragioni di eredità storica post-socialista sia per più prosaici motivi di prossimità geografico-territoriale – che fanno sì che un cittadino estone percepisca la minaccia di Mosca molto più seriamente di quanto lo faccia, ad esempio, un isolano greco-cipriota. Nella lista rientrano non solo l’Estonia, la Lettonia e la Lituania – che programmano di affrancarsi dalla dipendenza energetica che li lega alla Russia entro il 2025 mediante la diversificazione delle fonti di approvvigionamento.
Ne fa parte anche la Repubblica Ceca, che ha recentemente ingaggiato un braccio di ferro con Mosca comparabile, nei numeri, solo al macro-confronto russo-statunitense: la scintilla è arrivata dalla decisione della autorità ceche di espellere 18 diplomatici russi in relazione al presunto coinvolgimento di spie russe nell’incidente di Vrbětice. A quel punto il Cremlino ha espulso 20 funzionari cechi, facendo infuriare Praga per averne cacciati due in più di quanto indicato dal diritto internazionale (che prescrive la stretta reciprocità). Coinvolti a vario titolo nella “guerra dei diplomatici” tra l’UE e la Russia sono stati inoltre Slovacchia, Polonia, Bulgaria e Italia (relativamente al caso Biot).
Proprio Roma, assieme a Berlino, è artefice di una seconda “politica russa” incentrata sulla necessità di dialogare con il Cremlino, per quante grane ciò possa comportare nella coerenza politica dell’Unione. A dire il vero, è stato proprio il caso Biot a incrinare lo storico legame italo-russo. Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, infatti, non ha lesinato critiche a Mosca per quello che il pentastellato ha definito ”atto ostile di estrema gravità” – che fa il paio con il polemico accenno di Mario Draghi alla frequente violazione dei diritti dei cittadini russi durante il suo discorso d’insediamento al Senato.
Ciononostante, è inverosimile che queste siano avvisaglie di una imminente ricalibrazione della politica estera italiana in senso marcatamente russofobo. Con l’aumentare del solco che divide Washington e Mosca, è difficile che Palazzo Chigi voglia rinunciare al suo ruolo ufficioso di ponte tra le due sponde, che fa di Roma “il più russofilo tra gli atlantisti, e il più atlantista tra i russofili”. Inter alia, due delle tre principali forze politiche (Lega e Fratelli d’Italia), plausibilmente destinate a governare il Paese nel giro di qualche mese, hanno spesso usato toni conciliatori nei confronti dell’establishment russo.
Considerando la politica baltico-orientale e quella italo-tedesca come i due “estremi” dei rapporti tra l’UE e la Russia, nelle varie zone grigie si posizionano i rimanenti Paesi. Tra questi la Francia, il cui presidente Macron alterna la carota del dialogo con il bastone delle accuse, ritenendo allo stesso tempo necessario dialogare con il Cremlino ma farlo senza concedergli campo. Ma anche l’Ungheria, primo Paese europeo ad approvare lo Sputnik V russo.
Come se non bastassero da sole una pluralità di politiche nazionali (o regionali) a inibire il parto di una politica russa a livello europeo, ci si mette poi anche il commercio. Impossibile non far riferimento al Nord Stream 2 – il gasdotto che collega la città russa di Vyborg con Greifswald, in Germania – un progetto mai seriamente messo in discussione dai tedeschi anche nelle fasi più calde della crisi diplomatica di fine anno scorso (nonostante le pressioni della presidenza Biden, e soprattutto della precedente amministrazione Trump).
Business is business tra l’UE e la Russia: specialmente se Mosca deriva circa il 30% del proprio PIL dall’export di prodotti energetici (dei quali l’UE è il principale acquirente). Gli europei, dal canto loro, hanno bisogno di energia a basso impatto ambientale (o quantomeno più pulita del carbone) per sostenere una crescita post-pandemica e rendere sostenibile nel medio periodo la rivoluzione green. Peraltro, la stessa prossimità geografica alla base dell’intransigenza dei Paesi orientali fa il paio con una strettissima dipendenza energetica dal gas russo da parte delle capitali in questione.
Indi si percepisce la difficoltà di venire a capo dell’atteggiamento da tenere nelle relazioni tra l’UE e la Russia: un esercizio di funambolismo che a volte, Borrell insegna, causa sonore cadute.