Nel perseguire i propri interessi in Estremo Oriente, Mosca non deve fare i conti solo coi propri vicini immediati (Cina e Giappone su tutti), ma pure coi rivali di sempre, gli Stati Uniti. Anch’essi – via Bering – territorialmente prossimi ai russi, ma in regioni di scarsa popolazione e lontane dal proprio baricentro strategico, almeno fino a qualche tempo fa. L’ascesa della Cina ha cambiato le carte in tavola, riportando Washington nell’indo-pacifico e rialzando indirettamente la sua pressione sulla Federazione.
Il nostro direttore Pietro Figuera ha intervistato Federico Petroni, consigliere redazionale della rivista di geopolitica Limes ed esperto di strategia Usa. Obiettivo, comprendere i piani di Washington nei confronti di Mosca in una regione lontana dai riflettori europei. Ma non per questo meno importante.
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Possiamo affermarlo senza girarci intorno: la Cina è ormai il nemico numero uno di Washington. In questo senso la politica estera di Biden non è cambiata molto rispetto a quella del suo predecessore Trump. Quel che è cambiato, in modo abbastanza palese, è il confronto con la Russia. Oggi più muscolare che mai. Si tratta di una postura tattica, adottata per ottenere vantaggi sui vari fronti contesi e poi rivolgersi con più energie verso Pechino? Oppure di una strategia di lungo termine, volta a contrastare entrambe le potenze rivali?
C’è stato un parziale cambio di tattica. Biden doveva rimuovere l’impressione – sdoganata da Trump – che gli Usa fossero in qualche modo corrivi con la Russia. Il nuovo presidente ha allineato tattica e strategia: anche sotto Trump gli Usa continuavano a essere fortemente anti russi, a ritenere Mosca un pericolo fondamentale – e a comportarsi di conseguenza. Biden ha semplicemente aggiustato la narrazione. In ogni caso all’interno di certi apparati federali è maturato un certo progetto, nella convinzione che aprire alla Russia non sia il miglior modo per allontanarla dalla Cina. Al contrario, bisogna metterle tanta pressione da accelerarne il declino, e rendere visibile lo squilibrio che c’è tra lei e la Cina.
Si tratta dunque del primo passo di un progetto di medio-lungo termine. La Russia non la indebolisci in pochi mesi, o nel giro di 2-3 anni. Il piano è di più lungo respiro, e incontra le esigenze politiche di Biden. Il nuovo presidente ha bisogno di alleati: ovvero che i satelliti americani si schierino con gli Stati Uniti per controbilanciare l’ascesa della Cina. In questi anni gli alleati (specie quelli europei) si erano troppo allontanati dalle priorità statunitensi, per questo Biden fa la voce grossa con la Russia: ricorda agli europei chi sono i “cattivi” e gli intima (senza le brutte maniere di Trump) di rimettersi in riga.
Gli americani stanno quindi scommettendo sull’impossibilità di un vero abbraccio tra Russia e Cina: si rendono conto – e non sbagliano – che non è così facile l’intesa tra loro, e dunque hanno dei margini di tempo in cui agire. È così?
Sì, fanno una consapevole ma rischiosissima scommessa, secondo me. Puntano sul fatto che quando si tratterà di farle concessioni, la Russia sarà talmente schiacciata da non poter più danneggiare la loro sfera d’influenza in Europa. In altre parole, aumentano la pressione oggi per non doverle cedere qualcosa in Ucraina o in Estonia domani.
Torniamo in Estremo Oriente. Si parla molto dell’approccio degli Usa verso la Cina, cioè delle manovre per bloccarla nei suoi stessi mari, ma non si indaga spesso il loro atteggiamento nei confronti dei russi. Considerando la lunghezza delle coste della Federazione nell’area, e anche la loro prossimità a quelle americane dell’Alaska, via Bering, sarebbe importante riuscire a capire quali sono i punti salienti della strategia di Washington.
In verità non si può parlare – in termini geopolitici – di una strategia americana per l’Estremo Oriente russo. Esiste una strategia generale che prescrive di adottare ogni misura contro l’emersione di un rivale alla propria egemonia in Eurasia. Anzi, nel quadrante di nostro interesse forse non esiste ancora nemmeno una tattica di Washington, perché la Russia è ancora un vicino troppo lontano. È vero che dista poche decine di chilometri dalla propria isola di Diomede, dall’Alaska, dalle Aleutine, ma il centro demografico della Russia è troppo distante da questi territori per parlare di un vero vicinato.
Certo, adesso il riscaldamento globale sta creando una nuova frontiera con la Federazione. La rimilitarizzazione dell’Artico russo crea nuove preoccupazioni a Washington, che ora si deve occupare di difendere una frontiera prima inesistente – o affidata a sentinelle non pagate chiamate ghiacci. Ma gli strumenti adottati dagli statunitensi verso Mosca e Pechino sono più o meno gli stessi, in Estremo Oriente come altrove. Specie quando si parla di transiti delle rotte e operazioni sulla libertà di navigazione.
Anche per gli americani l’Estremo Oriente (estremo occidente, per loro) è lontano dal proprio centro strategico e demografico. Sono periferie che si toccano.
È vero, anche se l’estremo occidente statunitense (che in realtà arriva fino al Giappone e alle Filippine) è la frontiera del West, e in quanto tale ha per gli americani un valore sentimentale molto alto.
In Russia non c’è una narrativa speculare e altrettanto potente. Per quanto la conquista del suo Est sia stata altrettanto (se non più) epica, non è evocativa come l’epopea americana.
Perché l’oriente russo è rimasto disabitato. Gli americani hanno creato la California, i russi hanno creato Vladivostok. Messe su una bilancia…
Citavi poco fa i transiti e le operazioni sulla libertà di navigazione. Le vie della seta cinesi possono essere strozzate dagli americani in tutti i choke points di cui mantengono il controllo. Per questo motivo Pechino cerca scorciatoie di vario tipo. La rotta marittima settentrionale, quando verrà liberata del tutto dai ghiacci, potrebbe essere una di queste. Dietro dazio alla Russia, si intende. Gli Usa come si stanno muovendo di fronte a questa possibilità?
Se anche riuscisse a crearsi una rotta artica, la Cina dovrebbe comunque passare per gli stretti fra Taiwan e le Ryukyu, e resterebbe quindi sottoposta al vincolo del controllo navale Usa. Tutte queste domande hanno una sola risposta: Taiwan. L’isola contesa è davvero la chiave di questa partita. Perché la Cina riuscirà davvero a uscire dalla logica del controllo americano sugli stretti soltanto se recupererà Formosa. Il Myanmar, il Pakistan, Malacca, la rotta artica e gli altri passaggi sono alternative alla conquista cinese dell’isola. Che se realizzata, consentirebbe a Pechino di guadagnare l’oceano – e imbarazzare gli americani, che vedrebbero crollare le proprie garanzie e la strategia da loro fin qui adottata.
Poi è chiaro, gli Usa restano preoccupati anche di tutti gli altri Paesi o aree in cui la Cina va a costruire basi, postazioni avanzate, rapporti privilegiati. L’Artico è naturalmente incluso, come mostrano i recenti sviluppi in Islanda, Norvegia, Groenlandia. Washington ha riscosso il rifiuto di Reykjavik delle vie della seta, e ottenuto da Oslo (e Stoccolma) un inasprimento dei rapporti con la Repubblica Popolare. In più, è riuscita finora a tenere quest’ultima a distanza dalla Groenlandia, sia per i suoi aeroporti che per i suoi giacimenti di terre rare. Ma tutto questo, come dicevo, rientra in ambito tattico. La strategia resta imperniata su Taiwan.
E lungo tutte le coste artiche russe gli americani non possono far nulla?
No, ma sono avvantaggiati dal fatto che la Russia, finora, non ha mai concesso ai cinesi di stanziarsi sulle sue coste. Vero, Pechino paga profumatamente il giacimento di Jamal 2, ma si è ritirata da tanti altri progetti infrastrutturali di cui aveva chiesto il controllo – com’è avvenuto ad esempio ad Archangel’sk o a Murmansk. I russi non vogliono dare a una grande potenza straniera l’accesso a un territorio su cui la loro sovranità è ancora labile. Preferiscono, dove possibile, diversificare le fonti di investimento per le proprie infrastrutture strategiche: indiani, giapponesi, forse addirittura sauditi.
Esistono margini contrattuali per la Cina? Qualcosa da offrire a Mosca in cambio di ulteriori basi d’appoggio in Artico?
Non c’è niente che Pechino possa offrire, dal momento in cui chiede il controllo delle infrastrutture. Certe offerte possono andare bene per un Paese sottosviluppato, ma non per la Russia, che ha tutt’altro lignaggio.
Forse una Federazione più indebolita potrebbe cedere qualcosa, ma credo che questo assai difficilmente avverrà. Anche perché per Mosca l’Artico è una carta da giocare nel rapporto esclusivo con gli Usa. Se fai entrare i cinesi, li fai addestrare con le loro navi da guerra, fai attraccare i loro sottomarini nei tuoi porti del nord, in qualche modo gli stai cedendo la carta artica. Perdendo (ulteriormente) peso agli occhi degli statunitensi. Fossi Putin, l’ultimo territorio su cui cederei sarebbe proprio l’Artico.
Qual è il ruolo del Giappone? Taiwan è sicuramente centrale, ma non si passa senza toccare le sue acque territoriali…
Esattamente, il Giappone è una formidabile piattaforma che tiene inchiodata la Cina alle sue acque costiere, e serve anche a tenere d’occhio le manovre russe in Estremo Oriente. In questo senso per gli Usa è assolutamente funzionale che Tokyo si mantenga formalmente in guerra con la Russia.
Vorrei un attimo approfondire questo punto: non è solo una questione formale di belligeranza, c’è anche un aspetto sostanziale. Gli americani non vogliono che i russi rilassino i loro rapporti col Giappone.
Tokyo serve ad alimentare la sindrome di accerchiamento di Mosca. Un Giappone riappacificato con la Russia non sarebbe conveniente da un punto di vista tattico per gli Usa. Ma soprattutto è impossibile che ciò avvenga in una situazione internazionale come quella odierna. Finché Washington mantiene la pressione su entrambi i suoi rivali, il Giappone non potrà fare la pace con la Russia. Quest’ultima deve mollare Pechino prima.
Quanto c’è di americano e quanto di giapponese in questa scelta?
Ottima domanda. I missili di media o lunga gittata posti dagli Usa in Giappone sono pensati per tenere la Cina dentro casa, impedendole di uscire dai suoi porti. Ma gli stessi armamenti possono avere la stessa funzione nei confronti della Russia. Il ruolo di Tokyo è paragonabile – pur con una taglia e un rango diversi – a quello di Polonia e Romania. È parte di uno scudo antimissile.
E questo deve preoccupare i russi?
Solo in potenza. Perché comunque tutto ciò serve principalmente contro la Cina, e la Russia non ha certo la sua capitale nel Pacifico. Ad ogni modo il Giappone si mantiene ambiguo, perché non è sua intenzione farsi percepire come un mero pupazzetto di Washington. Tokyo non può temere la Russia, o almeno non quanto teme invece la Cina. Quindi i nipponici tengono in vita il negoziato sulle Curili e sul trattato di pace con Mosca, usandolo per dimostrare di non essere antirussi. Fanno un gioco simile anche con la Cina.
Che ruolo hanno le Coree, sempre in prospettiva americana? I rapporti tra Seoul e Washington sono in ottica più anticinese che antirussa, suppongo.
Le Coree sono viste in modo molto diverso dal Giappone, qui la dimensione è esclusivamente anticinese. Sì, in un’ipotetica conquista della Corea del Nord gli americani avrebbero un confine con la Russia, per pochissimi chilometri. Ma non c’è questo calcolo.
Altererebbero molto di più i rapporti con la Cina che con la Russia.
La Russia è ancora tendenzialmente ignorata dagli strateghi americani nell’equazione dell’indo-pacifico. Anzi, a volte è vista come qualcosa di vagamente utile proprio perché non è davvero presente. Quando gli Usa valutano una guerra navale con la Cina, non pensano ai russi. Parlo di una guerricciola, ovviamente: con una guerra mondiale le cose cambierebbero. In una guerricciola i russi non possono fare nulla in quel teatro. Non gli converrebbe. Al massimo potrebbero passare qualche informazione, ma se ne starebbero alla larga.
Nei loro porti.
Sì, anche perché non hanno una corposa presenza navale a est. Tutto il baricentro è spostato lungo la nuova cortina di ferro a ovest.
Sì, soprattutto di questi tempi. E poi rimane anche il trauma della guerra russo-giapponese. Erano altri tempi, logisticamente parlando, ma la necessità di circumnavigare l’Eurasia non è cambiata…
I giorni di navigazione sono diminuiti, ma il problema strategico resta lo stesso: le principali flotte russe sono a mezzo mondo di distanza da quel teatro.
E poi dovrebbero passare da Bering.
Esatto, e li voglio vedere. Sono rimasti davvero gli stessi i problemi di Mosca dal punto di vista strategico. La Russia preoccupa Washington a livello terrestre, non navale – a differenza della Cina. Per questo non rientra nell’equazione strategica dell’indo-pacifico. È chiaro che può dar fastidio in tanti modi, persino provando a sedurre le Filippine di Duterte, ma nessuna di queste azioni è determinante. Anzi, paradossalmente una Russia che ogni tanto si accorda con l’India non è così lontana dagli interessi strategici e tattici degli Stati Uniti. Indispettisce Pechino molto più di loro.
Individui qualche area di frizione che potrebbe far accrescere la percezione della Russia come minaccia, sempre nel Pacifico settentrionale?
Le Curili, che potrebbero essere armate per mettere pressione al Giappone. Oppure potrebbe pesare un maggiore attivismo militare nell’Artico, che spingerebbe gli americani a rafforzare la presenza tra Bering e le Aleutine. Infine la Corea del Nord. Se Pyongyang tornasse ad essere più irrequieta, potrebbe aumentare il ruolo dei russi. Ma questa è una partita che si gioca essenzialmente tra Washington e Pechino.
La Russia è il “numero 3” a livello globale. In Estremo Oriente rischia di essere quindi il numero 4 o 5?
La Russia lì è quasi alla pari del Giappone. Quasi, perché nonostante Tokyo sia dalla parte degli Usa fa una partita tutta sua ed è assolutamente più rilevante di Mosca nello scacchiere dell’indo-pacifico. Per i russi c’è ancora tanta strada da fare.