Asiatico o meno – ancora è presto per dirlo – il XXI secolo ha fin da subito mostrato i segni di un deciso spostamento a Est del baricentro geopolitico globale. Merito dell’irresistibile avanzata economica della Cina, presto tradottasi in una sfida al primato militare e tecnologico statunitense. Non a caso, proprio gli Usa sono stati i primi a individuare il nuovo trend e a impostare il “pivot to Asia” – premessa del containment anti Pechino.
Poi è toccato alla Russia, ma con modalità e ragioni molto diverse. Nell’ultimo decennio, il Cremlino ha cominciato a guardare a Est con crescente insistenza. E non (solo) per il timore di un eccessivo rafforzamento cinese, ma per il divorzio con l’Occidente consumatosi a seguito dello strappo della Crimea: una frattura apparentemente irreversibile. Sempre più isolata in Europa, Mosca ha dunque trovato nuove sponde di cooperazione in Estremo Oriente. Epilogo un po’ inaspettato, visto il rapporto non sempre limpido con Pechino. Ma a conti fatti obbligato, data la contemporanea pressione di Washington sulla Repubblica Popolare.
Volente o nolente, la Russia è quindi tornata ad affacciarsi sul Pacifico. Dove non trova soltanto gli amici-rivali cinesi, ma una pluralità di attori non sempre bendisposti. Dalla silenziosa cooperazione con le Coree all’irrisolta disputa territoriale col Giappone, Mosca muove i suoi passi in un’area già calda con una certa discrezione. Forse fin troppa, dato che gli Stati Uniti non sembrano finora intenzionati a dare particolare peso a ciò che succede tra Bering e Vladivostok. Non un dettaglio di poco conto: in caso di guerra tra Washington e Pechino, la Russia potrebbe essere l’ago della bilancia. Ma dovrà prima delineare una volta per tutte le sue priorità regionali.
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