Con la ritirata delle forze NATO dall’Afghanistan è iniziata la corsa delle maggiori potenze eurasiatiche alla stabilizzazione della regione. Al netto di Cina e Russia, che hanno assunto un ruolo di primissimo piano nel Paese, due sono gli attori regionali minori maggiormente coinvolti nei dialoghi con Kabul: il Pakistan e l’Uzbekistan. Tashkent, in particolare, ha deciso di capitalizzare la propria condizione di forza in Asia centrale per presentarsi come un partner importante per il nuovo Stato afghano.
Una transizione necessaria
L’Uzbekistan è stato per i primi venticinque anni successivi alla sua indipendenza uno dei Paesi più isolati al mondo. Richiuso su se stesso per rafforzare la propria architettura statale e la propria economia dall’interno senza avere shock, come accaduto nel vicino Kirghizistan, lo Stato ha deciso di aprirsi verso il mondo esterno solo a partire dal 2016, con l’avvento del nuovo presidente Shavkhat Mirziyoyev. Questa decisione è stata presa in un momento in cui il peso della maggiore risorsa economica del Paese, il cotone, aveva visto un ridimensionamento. Ciò dava a Tashkent la possibilità di avviare una transizione verso l’economia di mercato.
Il metodo con il quale lo Stato ha praticato la coltivazione, la raccolta e la lavorazione del cotone era improntato ad un regime di monopolio. Tale sistema difficilmente avrebbe retto alla liberalizzazione immediata del 1991 senza le tre riforme agrarie messe in atto nei venticinque anni successivi. Con l’avvio della transizione economica nel Paese è iniziata anche una lenta transizione politica. La concessione di maggiori spazi di libertà da parte del nuovo presidente uzbeco ha riguardato sia aspetti di politica interna sia di politica estera.
La riscoperta del ruolo di arbitro regionale
In politica estera l’azione uzbeca si è caratterizzata per un’apertura agli altri Stati dell’Asia centrale che ha assunto caratteristiche tipiche del regionalismo. Emerge così il netto contrasto con la politica di stretta autonomia strategica condotta nel venticinquennio precedente da Islam Karimov. I cardini di questa politica erano caratterizzati dall’esclusivo perseguimento dell’interesse nazionale, evitando accuratamente di imbrigliare il Paese in alleanze con i maggiori attori globali. Sfruttando la posizione baricentrica dell’Uzbekistan rispetto all’Asia centrale, questi ha impedito per decenni il sorgere di un regionalismo di stampo russo. Proposto nei primi anni Duemila attraverso una serie di organizzazioni facenti capo a Mosca, Tashkent se ne è tenuta a debita distanza. Le dispute ai confini con le altre repubbliche centro-asiatiche e le questioni idropolitiche, poi, hanno peggiorato ulteriormente la cooperazione regionale.
Con la riscoperta della propria centralità nelle questioni eurasiatiche legata all’arrivo del presidente Mirziyoyev è cambiato notevolmente l’approccio del Paese. La nuova strategia regionalista uzbeca poggia sulla forza relativa di cui godono attualmente i due maggiori Stati centro-asiatici: il Kazakistan e l’Uzbekistan, appunto. Questa stabilizzazione interna alle due repubbliche ha fatto accantonare la politica uzbeca di tensione costante, necessaria per evitargli di gravitare verso l’orbita russa. La posizione centrale dello Stato rispetto alla regione permette a Tashkent, infatti, di influenzare il destino dell’Asia centrale, e la spinta regionalista degli ultimi anni sembra tener conto di questo assunto. Avendo risolto quasi tutte le questioni con i vicini, il Paese ha iniziato a condurre una politica estera più attiva, come evidenziatosi durante la recente crisi afghana.
I Talebani cercano interlocutori
Arrivati al potere in concomitanza della ritirata delle forze NATO dal Paese, i Talebani hanno fin da subito cercato una legittimazione internazionale. In particolare, si sono rivolti alla Cina e alla Russia, attori principali nella regione, alla Turchia, al Pakistan, al Qatar e all’Asia centrale. La speranza del nuovo governo di Kabul è quella di ottenere la tanto agognata cooperazione con la comunità internazionale, negata loro durante la prima fase in cui sono stati al potere, vent’anni fa.
Gli Stati ai quali Kabul si sta rivolgendo, tuttavia, hanno interessi differenti e non necessariamente in sintonia con i Talebani. La Cina desidera penetrare nel mercato delle terre rare afghane, la Russia è preoccupata dall’esplosione del traffico di stupefacenti verso i suoi confini, la Turchia non può permettersi un’altra ondata di migranti come quella siriana, il Qatar è intenzionato a capitalizzare la propria influenza sui Talebani in termini politici, economici e militari, mentre il Pakistan si sta preparando a cavalcare l’ondata fondamentalista per rilanciare la propria politica di profondità strategica in Afghanistan. In questo quadro caleidoscopico, l’Asia centrale gioca un ruolo senz’altro minoritario, ma non per questo meno importante.
L’Asia centrale guarda a sud
I due Stati centro-asiatici attivi di più nella questione afghana sono il Turkmenistan e l’Uzbekistan. Ašgabat ha bisogno di assicurarsi il proseguimento dei lavori per il gasdotto TAPI, che dovrà trasportare gas naturale dal Turkmenistan all’India attraverso l’Afghanistan e il Pakistan. Pertanto, ha fin da subito assunto un atteggiamento di dialogo con il nuovo regime dei Talebani. Tashkent, invece, oltre ad aver svolto un ruolo fondamentale nell’evacuazione del personale internazionale presente in Afghanistan, soprattutto di quello tedesco, ha accolto una parte delle forze armate regolari afghane, mentre parte dei civili rifugiati sono stati già rispediti indietro su richiesta dei Talebani. L’Uzbekistan si sta preparando ad assumere la funzione di centro logistico per la distribuzione di aiuti umanitari alla popolazione afghana, piegata da una combinazione di siccità, pandemia e conflitto con i Talebani.
Mirziyoyev, inoltre, è intenzionato ad ottenere un’interruzione di tutti i canali di dialogo tra i Talebani ed i terroristi dell’Islamic Movement of Uzbekistan, partendo, tuttavia, da una posizione di maggiore forza rispetto al vicino Tagikistan nell’affermare quest’intenzione. A differenza del governo tagico, anch’esso confinante con l’Afghanistan e preoccupato da un’eventuale riemersione del terrorismo nei propri confini come avvenuto durante la guerra civile tagica, l’Uzbekistan dispone del più potente esercito di tutta l’Asia centrale ed ha condotto una dura campagna di eradicazione delle cellule terroristiche sul proprio territorio. Questo gli consente di poter instaurare un dialogo con i Talebani senza temere contraccolpi in patria, cosa che invece rischia concretamente il ben più debole Tagikistan.
Con i Talebani ritorna il Grande Gioco
Il nuovo corso della politica afghana ha attirato numerosi Stati nella regione per tentare di stabilizzare la situazione. Obiettivo velato è porsi in una condizione di vantaggio rispetto alle future relazioni internazionali che i Talebani intratterranno. Le maggiori potenze, Cina e Russia, sono interessate a colmare il vuoto statunitense e ad evitare rientri delle forze occidentali nella regione. Altri Paesi, meno poderosi sul piano internazionale rispetto a questi due, sono entrati in gioco per ragioni di vicinanza geografica e di calcolo politico. L’Uzbekistan è pienamente inserito nel novero di quegli attori che non possono condurre politiche estere di peso. Ciononostante, è in grado di incidere sul proprio estero vicino.
La volontà di Tashkent di diversificare il proprio commercio fa dell’Afghanistan un elemento chiave per assicurare l’accesso ai porti pakistani e iraniani in sicurezza. L’obiettivo del Paese è quello di trasformarsi nell’anello di congiunzione tra nord e sud, est e ovest. Il regionalismo promosso da Mirziyoyev non ha sostituito del tutto la tradizionale autonomia strategica uzbeca. Da ciò deriva la ricerca di nuovi canali commerciali per non impantanare lo Stato esclusivamente nelle dinamiche centro-asiatiche, senza riuscire a incidere su altri scenari.
Una scelta obbligata
Il terrorismo e il traffico di stupefacenti sono motivazioni importanti per portare l’Uzbekistan a scendere a patti con i Talebani. Ciò onde evitare rischi per la propria stabilità interna, innanzitutto. Collocandosi al centro delle rotte che dall’Afghanistan si spingono a nord verso la Russia, Tashkent è forzatamente chiamata a tenere un atteggiamento vigile rispetto a quanto sta accadendo nel suo instabile vicino meridionale. D’altro canto, Mirziyoyev intende capitalizzare la propria posizione di forza attraverso un dialogo costante con Kabul. Questo servirà per evitare di venire schiacciato da una politica commerciale rivolta solo verso la Russia e la Cina.
L’autonomia strategica del Paese verrà conservata solo tramite uno stabile accesso a quanti più mercati possibile. La “tomba degli imperi” non deve diventare in alcun modo un cappio al collo dell’Uzbekistan.