Centocinquanta anni fa il Segretario di Stato americano William H. Seward e il diplomatico russo Edouard de Stoeckl firmarono l’atto di vendita dell’Alaska agli Stati Uniti d’America. Con un tratto di penna, lo zar Alessandro II cedette l’ultimo lembo di terra russo in Nord America, per la modesta cifra di 7,2 milioni di dollari. Oggi l’Alaska è uno degli stati più ricchi degli Stati Uniti grazie alla sua abbondanza di risorse naturali, come petrolio e oro, e gode di una crescente importanza geopolitica per via della posizione strategica come porta d’accesso all’Artico. Cosa ha spinto la Russia a cedere questa regione ai futuri rivali e quali sono state le conseguenze?
A un primo sguardo a una cartina rappresentante l’Impero russo si rimane colpiti dall’immensità delle terre governate dagli zar. La conquista della Siberia, in particolare, fu il frutto di un instancabile processo di espansione che dal XVI secolo ai primi del Novecento vedrà la Russia occupare i vastissimi spazi siberiani. Si sa che la geopolitica aborrisce i vuoti e l’enorme vuoto ad Oriente venne colmato dall’intraprendenza dei russi, dal ferro e dall’argento dei cosacchi e dei mercanti alla ricerca di pellicce, minerali preziosi e proficue vie commerciali. Parimenti all’espansione verso l’Ovest americano, la saga del “Destino Manifesto” alla russa venne patrocinata dalla corte di San Pietroburgo già al principio del XVII secolo. Pietro il Grande, lo zar riformatore, promotore dell’occidentalizzazione dell’impero, sviluppò progressivamente la marina russa a tal scopo. Strappati i porti baltici all’effimero impero svedese, l’espansione verso levante appariva naturale prosecuzione della volontà di potenza russa. Processo perseguito metodicamente che estenderà i confini imperiali fino alla Manciuria e a lambire il freddo mare di Bering.
Il braccio di mare che separa la Russia all’Alaska deve il suo nome all’esploratore norvegese Vitus Bering che nel 1741 lo attraversò sbarcando nelle isole Kayak. I russi compresero fin da subito le potenzialità del territorio appena scoperto. Dopo aver piegato la resistenza indigena, fecero germogliare una serie di insediamenti lungo tutta la costa – sull’onda lunga dell’intraprendenza di mercanti, esploratori e funzionari. Fondachi, forti e villaggi popolati da un pugno di russi, sopravanzati numericamente dagli autoctoni che si riveleranno manodopera fondamentale per costituire le prime reti commerciali improntate sul mercato delle pellicce. Da Novo-Arhangelsk (ora Sitka), capitale dell’America Russa, si commerciavano manufatti cinesi e tè, si costruivano navi e si estraeva il carbone. Sfruttando l’assenza o l’incuria delle potenze coloniali europee, i russi si spinsero fino alla costa californiana dove costruirono diversi fondachi, tra cui l’iconico Fort Ross, dove ancora oggi è possibile visitare una chiesa ortodossa perfettamente conservata.
Al di là della potenziale redditività della colonia, a rendere il suo territorio sempre meno attrattivo per gli zar fu una serie di fattori che tuttora caratterizzano la debolezza del controllo russo nell’Estremo Oriente. La regione era poco popolata (nel 1867 ospitava circa 2.500 russi e 8.000 autoctoni), lontana dalle principali rotte commerciali e militarmente indifesa. L’ostilità delle riottose tribù locali, le condizioni climatiche e la scarsità di manodopera non avevano permesso una colonizzazione maggiormente strutturata.
Nuova Arcangelo (l’odierna Sitka), la capitale dell’America russa, nel 1837
Al di là dei problemi precedentemente enunciati, a costituire un importante fattore propulsivo verso la possibile cessione del territorio vi era una questione di pragmatica attualità: la sconfitta russa nella guerra di Crimea del 1856. La disfatta subita nella penisola da parte di una coalizione di britannici, francesi, ottomani e piemontesi aveva sottolineato le lacune militari e l’arretratezza della Russia di fronte all’assertività occidentale. Lo zar Alessandro II, animato da spirito riformista (sarà lui a emanare il decreto di emancipazione della servitù della gleba), raccolse le istanze di rinnovamento presenti all’interno della corte – sollecitazioni che invocavano dei cambiamenti strutturali all’interno del recalcitrante impero. L’Alaska, territorio percepito come lontano, indifeso e poco produttivo, appariva come una utile merce di scambio per consolidare nuove alleanze e ottenere liquidità da impiegare sul fronte interno. A metà Ottocento due potenze erano in lizza come possibili acquirenti. Da una parte l’impero britannico, proprietario del Canada, dall’altra la giovane potenza statunitense, da lì a poco impegnata in un conflitto fratricida tra gli Stati del Nord e del Sud. Presto scartata l’opzione britannica (lo zar non intendeva rafforzare ulteriormente il recente nemico) restava in lizza solamente Washington.
Nel 1865, conclusasi la guerra civile, le trattative ripresero tra Eduard de Stoeckl, diplomatico russo incaricato delle relazioni con gli americani e il segretario di stato a stelle e strisce William H. Seward, eminenza grigia dell’allora presidente Andrew Johnson. La questione Alaska infiammò il dibattito nella politica, nei media e nell’opinione pubblica americana. Il presidente e il suo entourage guardavano con favore all’acquisto del territorio artico, che gli avrebbe permesso di sfruttare le risorse minerarie e naturali di cui si credeva ricca l’Alaska, oltre a distogliere l’attenzione sulle ferite della ricostruzione post guerra civile e le tensioni sociali di un America frammentata. Ma si sollevarono anche numerosi voci contrarie. Parte della stampa vedeva nella “ghiacciaia di Seward” un inutile e costoso investimento da realizzare, tra l’altro, in una fase di contrazione economica. A spingere infine in direzione dell’accordo furono non solo le sue potenzialità economiche e la strenua volontà di Seward, sostenitore dell’espansionismo americano, ma le esigenze geopolitiche dell’impero in divenire, la potenziale riaffermazione della Dottrina Monroe sul continente e il Destino Manifesto citato in principio, convitato di pietra dell’ethos culturale statunitense.
Dopo una lunga negoziazione, il trattato fu firmato alle 4 del mattino del 30 marzo 1867. Il prezzo concordato fu di 7,2 milioni di dollari, equivalenti a circa 120 milioni attuali. Il 18 ottobre 1867, le due potenze organizzarono la cerimonia di trasferimento dei poteri nella città di Sitka. Soldati russi e americani sfilarono davanti alla casa del governatore, calando la bandiera russa per issare quella a stelle e a strisce. Il trattato delineò i confini geografici del territorio e stabili la proprietà dei beni disponibili. I cittadini russi furono messi in condizione di scegliere di tornare nel loro Paese entro tre anni o rimanere per divenire cittadini statunitensi. Allo stesso tempo le tribù native, prive del diritto di cittadinanza, finirono per essere sottoposte al diritto americano. In Russia, l’evento fu celebrato come un successo diplomatico, foriero di benefici: il denaro statunitense avrebbe migliorato il bilancio pubblico, il Cremlino avrebbe potuto dedicare più risorse alle campagne espansionistiche in Europa e Asia e, inoltre, si credeva che l’Alaska fosse un territorio sterile e privo di risorse naturali. Infine, v’era l’aspettativa che un simile atto avrebbe portato alla nascita di un’amicizia duratura, magari in chiave antibritannica.
L’oleodotto trans-Alaska, che attraversa il paesaggio dell’Alaska, dal nord all’urbanizzato sud.
Concluso l’accordo, per Washington iniziava un lungo periodo di inquadramento amministrativo (l’Alaska divenne uno stato solamente nel 1959) e popolamento, al fine di sfruttare le risorse locali. Tuttavia, complici le difficoltà climatiche e infrastrutturali, l’Alaska rimase decisamente sottopopolata per tutta la seconda metà del XIX secolo. Solo la scoperta e la conseguente corsa all’oro nel Klondike contribuì a portare sul territorio decine di migliaia di coloni. Al di là dell’inflazionato luogo comune sulla “follia di Seward”, l’acquisto dell’Alaska si sarebbe rivelato in prospettiva un ottimo affare per Washington. Non solo per la scoperta di importanti giacimenti – prima auriferi e poi di idrocarburi – nella seconda metà del XX secolo, ma anche per le ripercussioni geopolitiche che permetteranno agli USA di disporre di una postazione in un Artico attualmente teatro di crescenti rivalità tra le grandi potenze.
Al giorno d’oggi, a piu di 150 anni dalla vendita, è arduo nonché retorico discutere sul “se” e “come” si sarebbe evoluta un’Alaska russa o le relazioni Mosca-Washington se gli zar avessero deciso di non cederne il territorio. Parimenti si rivelano artifici retorici le improbabili ucronie che invocano un possibile vantaggio geopolitico dell’impero russo su un’America incapace di arrestare il processo di espansione continentale degli zar. In taluni circoli politici e governativi russi, tuttavia, non sono mancate dichiarazioni al vetriolo in merito all’avvedutezza della scelta operata da Alessandro II. Un vantaggioso accordo in termini economici e politici viene riletto come una dannosa cessione alla futura nemesi del Paese. Sergey Aksyonov, ad esempio, primo ministro della Crimea e sostenitore della linea assertiva in politica estera, ha dichiarato nel 2018 che “se la Russia fosse in possesso dell’Alaska oggi, la situazione geopolitica nel mondo sarebbe diversa” potendo controllare le risorse naturali e minerali della regione e privando l’America e di una posizione militare strategica alle porte della Siberia. Revisionismo a latere, l’Alaska si candida a rappresentare la prima futura linea dell’onnipresente rivalità russo-americana, in una regione – a dispetto del clima – sempre più calda.
Bibliografia
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