L’ex presidente georgiano è rientrato poche settimane fa nel suo Paese natale, andando incontro a un prevedibile arresto. Il suo destino, sospeso a metà tra Georgia e Ucraina, ci dice molto delle due repubbliche ex sovietiche. Che provano, non senza difficoltà, a trovare una sintonia nella comune sfida a Mosca.
Ovunque in Georgia si respira desiderio di libertà. Libertà per una terra di confine da sempre contesa tra potenti vicini. Una libertà conquistata con difficoltà con l’indipendenza del 1991 e ancora più faticosamente difesa negli anni a seguire. Tutto a Tbilisi è testimone di questa lotta per l’indipendenza: da Rustaveligamziri, arteria principale della città che prende il nome dal poeta nazionale georgiano, a Piazza Europa, dedicata al continente che per i georgiani continua ad essere simbolo di libertà. Fino a Piazza della Libertà, appunto, con la sua statua di san Giorgio che trafigge il drago che simbolicamente ha sostituito il monumento a Lenin.
Proprio da questa piazza torna oggi ad essere invocata la libertà: questa volta, al grido di “Misha libero”, ad essere reclamata è la liberazione dell’ex presidente Mikheil Saakashvili, arrestato al suo ritorno in patria dopo otto anni di esilio in Ucraina. Dalla prigione di Rustavi, dove si trova ora detenuto, Saakashvili torna a scuotere la scena politica georgiana, mai veramente abbandonata, per continuare quella lotta politica che l’ha reso uno dei grandi protagonisti della storia della Georgia post-sovietica, nel bene e nel male.
Chi è Misha Saakashvili
Complici quella loquacità e fascino che da sempre contraddistinguono il popolo georgiano, Mikheil Saakashvili, fin dai suoi esordi politici agli albori del nuovo millennio, era riuscito a conquistare la simpatia di molti in Occidente. A convincere anche i più scettici era stato il suo ruolo nella transizione politica georgiana del 2003.
Dimessosi da ministro della giustizia per fondare un nuovo partito, il “Movimento Nazionale Unito”, entrò in aperto conflitto con l’allora presidente Eduard Shevardnadze, di cui denunciava la corruzione e la subordinazione a Mosca. Quando fu chiaro che le elezioni del 2003 avrebbero confermato Shevarnadze al potere, Saakashvili guidò l’ondata di proteste che portò Shevarnadze alle dimissioni e il leader dell’opposizione a diventare il terzo presidente della Georgia indipendente. Era la Rivoluzione delle Rose, la prima delle rivoluzioni colorate dello spazio post-sovietico.
Giovane, fluente in inglese, laureato alla Columbia University, con una retorica democratica e riformatrice, non passò inosservato in Occidente, dove molti videro in lui quell’“uomo nuovo” che avrebbe portato la democrazia (occidentale) nell’Estero Vicino russo. Molti, tra cui l’allora presidente americano George W. Bush, che ebbe a definire Saakashvili “il nostro ragazzo”, sostenendosi “orgoglioso di poterlo chiamare amico”[1].
In effetti, i primi anni di presidenza Saakashvili confermarono le aspettative. Particolarmente gradita agli americani fu l’ondata di riforme che travolse la società georgiana, dalla burocrazia alla giustizia, dal sistema scolastico alle forze dell’ordine. Ancor più gradita fu la disponibilità del presidente georgiano di sostenere la guerra al terrorismo americana in Afghanistan e Iraq.
Agli affascinati occhi occidentali sembrò tuttavia sfuggire la deriva autoritaria che ben presto assunse il regime Saakashvili: l’intento riformatore giustificò la trasformazione della Georgia in uno Stato poliziesco, in cui elevata sorveglianza dei cittadini, arresti senza regolari processi e tortura divennero all’ordine del giorno.
Il sostegno americano riuscì comunque a proteggere “Misha” dalle critiche interne, tant’è che alle elezioni del gennaio 2008, se pur con una maggioranza ridotta (53,4% contro il 96% ottenuto alla tornata del 2004) riuscì a confermarsi al potere. Ma non fu sufficiente nello scontro con il (nuovamente) potente vicino russo, risorto dalle ceneri sovietiche nella sua assertività imperiale.
La traiettoria filo-occidentale che Saakashvili aveva impresso all’ex repubblica sovietica era stata tutt’altro che gradita a Mosca. Ancor meno lo era la possibilità di integrazione euro-atlantica del vicino georgiano: il Cremlino avrebbe utilizzato tutte le proprie leve di politica estera per impedirlo. La tensione esplose infine attorno ai secessionismi di Ossezia e Abkhazia, rimasti congelati dopo i conflitti etnici dei primi anni Novanta, e che Saakashvili tentò di strappare al controllo di Mosca.
Cosa fece pensare a Saakashvili di poter contare sull’intervento americano nello scontro con Mosca, se un’ingenua fiducia o qualche assicurazione ufficiosa, rimane ancora oggetto di dibattito. Certo è che questo eccesso di intraprendenza e l’aver sottovalutato l’assenza di una alleanza formale con gli americani[2], ebbero un costo estremamente caro per il giovane presidente georgiano. Con la Guerra dei cinque giorni dell’agosto 2008 Tbilisi perse le repubbliche secessioniste di Abkhazia e Ossezia del sud, dichiaratesi indipendenti e oggi de facto sotto il controllo di Mosca. Subì una battuta d’arresto il processo di integrazione della Georgia nella Nato e nell’Unione Europea, rimandato di fronte all’assertività di Mosca a data da destinarsi. L’impulsività di Saakashvili iniziò poi a creargli nemici nelle cancellerie europee. Non da ultimo, il pesante e costoso fallimento della guerra gli alienò il sostegno dei georgiani. Secondo una pratica che sarebbe diventata sempre più comune nella lotta politica georgiana, alcuni arrivarono addirittura a ritorcergli contro la carta russofoba, che era stata fondamenta della sua retorica politica, accusandolo di aver (più o meno volontariamente) consentito le mire espansionistiche del Cremlino nel Caucaso.
Sull’onda di questo fallimento emerse sulla scena politica georgiana un nuovo partito, il “Sogno Georgiano” fondato dal magnate BidzinaIvanishvili, che si impose alle elezioni del 2012. Saakashvili sarebbe rimasto in carica fino alla fine del suo mandato per garantire quella “transizione graduale” che riteneva sarebbe potuta diventare un “potente esempio di democrazia per tutta la regione”[3], per poi lasciare al Sogno Georgiano il dominio incontrastato della scena politica del Paese per il decennio successivo.
Accusato dal nuovo governo di abuso d’ufficio, di occultamento di prove sull’omicidio del banchiere Sandro Girvliani e di essere tra i mandanti dell’aggressione al parlamentare Valery Gelashvili, Saakashvili lasciò il Paese prima di terminare il mandato.
Rinascita politica: Saakashvili tra Ucraina e Georgia
Non era però ancora giunta al tramonto la carriera politica di Misha, che si rese ben presto conto di aver ancora delle carte da giocare in un Paese che gli era molto affine sia a livello personale sia in quanto georgiano. L’Ucraina, dove Saakashvili aveva condotto i propri studi, condivide con la Georgia il passato russo e sovietico, ma anche le sfide che ne sono seguite: entrambi i Paesi hanno intrapreso un percorso filo-occidentale attraverso le cosiddette rivoluzioni colorate e aspirano all’integrazione euro-atlantica; sono stati per questo puniti dal Cremlino e sono stati amputati di parte del proprio territorio nazionale a causa dell’occupazione russa.
Il suo curriculum di riformatore in un contesto così simile a quello post-Euromaidan ha permesso a Saakashvili di guadagnarsi la fiducia del presidente ucraino Petro Porošenko che nel 2015 gli ha riconosciuto la cittadinanza ucraina e l’ha nominato Governatore della regione di Odessa, tra le proteste della vicina Georgia. Ma il sostegno di Porošenko sarebbe ben presto venuto meno quando Saakashvili, dimessosi dal suo incarico, diede vita ad un movimento anti-corruzione che aveva nel mirino lo stesso presidente ucraino: la cittadinanza ucraina gli fu immediatamente revocata e dovette lasciare il Paese.
Nel 2019 però il nuovo presidente ucraino Volodymyr Zelenskij ha restituito a Saakashvili la cittadinanza e nel maggio 2020 l’ha nominato al vertice del Comitato Esecutivo per le Riforme. Una mossa che ha sollevato non pochi dubbi, in Ucraina e all’estero: che Zelenskij volesse distinguersi nettamente dal predecessore o che cercasse di “distrarre” l’elettorato dai fallimenti delle riforme del proprio governo, il risultato è stato che attorno alla figura di Saakashvili le relazioni tra Ucraina e Georgia sono tornate ad incrinarsi. Il governo di Tbilisi, considerando inaccettabile che un individuo condannato in contumacia in Georgia (ma soprattutto principale nemico del Sogno Georgiano), accedesse a simili cariche a Kiev, ha richiamato il proprio ambasciatore per consultazioni.
Pur impegnato attivamente nella politica ucraina, Saakashvili non ha mai realmente abbandonato quella georgiana, nonostante Tbilisi abbia più volte ribadito che in quanto cittadino e personaggio pubblico ucraino non avesse più alcun diritto di interferirvi[4]. Nel febbraio 2021 Misha è tornato ad essere motivo di nervosismo per Tbilisi e di imbarazzo per Kiev quando ha invitato i georgiani a scendere in piazza contro il regime ignorando ogni restrizione anti-Covid. Tuttavia nella primavera del 2021, di fronte alla crescente minaccia del nemico comune ai confini orientali dell’Ucraina, le relazioni tra Kiev e Tbilisi hanno visto un nuovo avvicinamento[5], giunto peraltro in concomitanza con la rimozione di Saakashvili dal suo incarico.
Il Sogno Georgiano ha più volte sostenuto che proprio Saakashvili sarebbe la principale ragione del deterioramento dei rapporti con Kiev. In realtà, i nodi da sciogliere nelle relazioni bilaterali sono ben altri: dal mancato riconoscimento da parte della Chiesa Ortodossa Georgiana dell’autocefalia di quella ucraina, al silenzio di Tbilisi in merito al Nord Stream 2. Fattori che alimentano a Kiev la percezione che la politica del Paese caucasico sia ancora troppo “accomodante” nei confronti della Russia.
Questa affermazione del Sogno Georgiano è sicuramente più strumentale a screditare a livello internazionale il proprio principale nemico, che non ad individuare la vera ragione per cui due Paesi con una simile affinità di vedute, sfide e opportunità non riescano a cooperare in maniera efficace. Eppure rimane il fatto che recentemente è stato di nuovo Saakashvili a gettare un’ombra sulle relazioni tra i due Paesi.
Ritorno in Georgia: quale futuro?
Più volte Saakashvili aveva preannunciato il proprio ritorno in patria: “Non lascerò la Georgia, tornerò per aiutare il popolo a liberarsi dall’oligarca russo Ivanishvili”[6]. Altrettante volte il governo georgiano aveva ribadito che al suo ritorno l’ex presidente sarebbe stato arrestato, come previsto dalla legge georgiana. E così è stato.
Su esempio del collega russo Naval’nyj (se pur con una ben diversa risonanza internazionale), Saakashvili è tornato in patria da cittadino ucraino, varcando illegalmente il confine georgiano (e anche quello ucraino) per poi pubblicare un video del proprio arrivo a Batumi: città portuale dove svetta un monumento alla leggendaria Medea, colei che unì la Georgia all’Europa. Nonostante le implicazioni che l’arresto di un cittadino ucraino avrebbe potuto avere sulle relazioni bilaterali, il Sogno Georgiano non ha voluto rischiare di compromettere la propria credibilità: arrestato poco dopo, Saakashvili si è dichiarato “prigioniero politico” e ha dato inizio ad uno sciopero della fame.
Esaurite le proprie carte in Ucraina, Saakashvili tenta una terza incarnazione politica di nuovo in patria. E quale occasione migliore delle elezioni amministrative del 2 ottobre, momento decisivo nella crisi politica che ormai da mesi divide il Paese tra le due forze politiche principali: il Sogno Georgiano di Ivanishvili e il Movimento Nazionale Unito, di cui leader non ufficiale è ancora Saakashvili. Per superare l’impasse causata dalla polarizzazione della società georgiana è intervenuta l’Unione Europea. Con cui il Sogno Georgiano, spesso accusato di essere filo-russo (affermazione forse eccessiva nel contesto del Paese) vive oggi un conflitto senza precedenti[7]. Se alle elezioni amministrative il Sogno Georgiano non avesse raggiunto il 43% si sarebbero dovute indire elezioni parlamentari anticipate. L’accordo non è stato però firmato dal Movimento Nazionale Unito, che ha così spinto anche il Sogno Georgiano a ritirarsi privando la mediazione europea di ogni efficacia. A riprova delle divisioni interne alla società georgiana le elezioni non hanno dato esito definitivo e in molte delle principali città, tra cui Tbilisi, sarà necessario un ballottaggio previsto per il 30 ottobre.
In questo complicato contesto, il ritorno in patria di Saakashvili non ha fatto altro che esacerbare ulteriormente la polarizzazione della società georgiana, divisa tra coloro che in questi giorni scendono in piazza per il rilascio di Misha e coloro che invece sostengono il regime. Intrappolata nella propria crisi politica, la Georgia è oggi completamente ripiegata su se stessa: incapace di portare avanti il necessario processo di riforma interno, rischia di compromettere la reputazione della propria democrazia all’esterno, soprattutto nei salotti della diplomazia europea, incrinando quei legami che tanto abilmente era riuscita a costruire.
Il sogno europeo del popolo georgiano, di cui Saakashvili è stato forse il più grande interprete, si fa sempre più lontano. Quella libertà che aveva cercato proprio in queste terre il protagonista del puškiniano “Prigioniero del Caucaso” rischia di rimanere un “lieto miraggio”. Quel che è tuttavia certo è che ancora per un po’ non calerà il sipario su Misha Saakashvili.
Elena Tagliaferri
[1] https://www.foreignaffairs.com/articles/russia-fsu/2013-10-29/so-long-saakashvili
[2] Ibidem
[3] https://carnegieeurope.eu/2012/11/14/in-conversation-with-h.e.-mikheil-saakashvili-president-of-georgia-event-3872
[4] https://jamestown.org/program/mikheil-saakashvilis-activity-strains-georgian-ukrainian-relations/.
[5] Lorusso Marilisa, Tbilisi in allarme si riavvicina a Kiev, in Limes 6/2021.
[6] https://jamestown.org/program/mikheil-saakashvilis-activity-strains-georgian-ukrainian-relations/.
[7] https://carnegieeurope.eu/strategiceurope/85300.)