La sera tra il 9 e il 10 novembre 2020 i rappresentanti di Armenia e Azerbaigian, mediati dalla Russia, hanno posto fine alla guerra che per 44 giorni aveva tenuto i due Paesi e la comunità internazionale con il fiato sospeso. Al cessate il fuoco ha fatto seguito un accordo di nove punti allo scopo di stabilizzare la regione e far ripartire la cooperazione su tutti i livelli. Gli impegni mantenuti e quelli disattesi, a un anno dalla firma.
L’8 novembre 2020 la città di Shusha, situata a soli 15 chilometri da Stepanakert (o Xankendi), capitale della de facto Repubblica d’Artsakh, capitola sotto la pressione delle forze armate azere. Ne segue l’intervento immediato di mediazione russa, concretizzatosi in un accordo trilaterale firmato dal presidente della Federazione Vladimir Putin, dal suo omologo azero Ilham Aliyev e dal primo ministro armeno Nikol Pashinyan.
Come previsto dal primo punto dell’accordo[i], l’immediato cessate il fuoco viene implementato da entrambe le parti in conflitto. L’accordo prevedeva altresì, al secondo e sesto punto, che i distretti di Aghdam, Kelbajar e Laçın, fossero restituiti all’Azerbaigian, mentre il corridoio di Laçın sarebbe stato posto sotto il controllo della missione di pace russa inviata nella regione. Quest’ultima, come da terzo e quarto punto, sarebbe stata costituita da 1.960 soldati armati, 90 veicoli corazzati, 380 autoveicoli e unità di equipaggiamento speciale, stanziati lungo la linea di contatto nel Karabakh e nel corridoio Laçın, che collega direttamente l’Armenia e Karabakh. La durata della missione è stata fissata a cinque anni da rinnovarsi automaticamente, a meno di obiezioni da parte di uno dei tre soggetti interessati e, infine, secondo il punto cinque, un apposito centro di pace è stato stabilito nella regione per monitorare la realizzazione dell’accordo.
Il sesto punto prevede la costruzione, entro tre anni dalla firma dell’accordo, di una via di collegamento nel corridoio Laçın tra Armenia e Karabakh, dove verrebbero in seguito trasferiti i peacekeeper russi. La costruzione di infrastrutture è collegato al punto nove riguardante lo sblocco delle vie di comunicazione tra le regioni interessate, la protezione delle stesse e la costruzione di nuovi collegamenti, come per esempio tra l’Azerbaigian e l’exclave del Naxçıvan. Infine, il settimo e l’ottavo punto regolano, rispettivamente, il ritorno dei rifugiati nel Karabakh e lo scambio di prigionieri di guerra.
Da questa breve ricapitolazione, si deduce che il trattato non mira soltanto a una normalizzazione dei rapporti politici tra i due paesi, ma anche, e soprattutto, di quelli economici.
Nonostante le buone intenzioni, emergono, tuttavia, incertezze inerenti sia alla non chiara formulazione di alcuni punti, sia al mancato rispetto di altri. Ciò riguarda soprattutto la situazione dei rifugiati, lo scambio dei prigionieri di guerra, lo sviluppo delle infrastrutture nonché la questione dello status ancora rivendicato dall’Armenia.
Dissonanze sono trasparite già durante l’incontro tra i tre leader firmatari dell’accordo a Mosca l’11 gennaio 2021per monitorare i progressi. Putin, ottimista, ha posto l’accento sulle condizioni dell’accordo eseguite senza maggiori incidenti e con i peacekeeper già stanziati e attivi. Il presidente russo riporta, inoltre, che 48.000 Armeni sono già ritornati a Stepanakert. Questa dichiarazione contiene già degli interrogativi, poiché non vi è menzione alcuna dei rifugiati Azeri che da circa trent’anni attendono di ritornare nelle regioni liberate. Il loro ritorno peraltro dipende dalla necessità di ricostruzione totale delle regioni restituite all’Azerbaigian interamente distrutte non soltanto a causa della guerra ma anche dai residenti precedenti che al momento di lasciare la regione hanno contribuito allo sfacelo smantellando abitazioni, foreste e cimiteri.
Ciò rimanda chiaramente alla questione della costruzione di infrastrutture di cui, al momento, si ricevono notizie soltanto da Baku. Nel sopramenzionato incontro dell’11 gennaio a Mosca, infatti, le posizioni dei due stati sono visibilmente contrastanti. Se Aliyev ha posto l’accento sulla necessità di nuove infrastrutture per far fortificare l’economia della regione e i rapporti con i vicini, Armenia compresa, Pashinyan, invece, si è soffermato essenzialmente sulla questione dello status. Tale considerazione è stata ritenuta inadatta dato che l’Armenia, come parte perdente, non ha la facoltà di imporre condizioni (tale questione non è stata difatti sfiorata da Putin).
L’insistenza di Aliyev sulle infrastrutture gioverebbe anche all’Armenia poiché le opere future collegherebbero non soltanto Azerbaigian e Turchia (tramite il Naxçıvan) ma anche Armenia e Russia (attraverso l’Azerbaigian) nonché Armenia e Iran. Conseguentemente, il revisionismo armeno è considerato controproducente. Nell’incontro a due avuto con Pashinyan, Putin si riferisce infatti alla missione di pace augurandosi che rimanga efficiente e che migliori costantemente. Tuttavia, l’utilizzo di peacekeeper russi a protezione di zone abitate principalmente da popolazione armena genera implicitamente dei dubbi sulla genuinità delle intenzioni riguardanti lo status.
Inoltre, il trattato non spiega il motivo per cui tale missione sia stanziata soltanto sui territori popolati da Armeni e vicino a infrastrutture di collegamento con l’Armenia (corridoio Laçın), mentre in regioni come lo Zangilan, dove è in corso la costruzione di opere di collegamento con l’exclave del Naxçıvan, i peacekeeper sono assenti. Ciò implica un trattamento impari delle parti, non una novità per le missioni di pace russe, in passato criticate a causa del supporto fornito alle forze separatiste come nel caso di Abcasia, Ossezia del Sud, Moldova, Transnistria e Tagikistan[ii].
Il primo ministro armeno ritiene inoltre irrisolta la questione dei prigionieri di guerra. Pashinyan ha dichiarato nel luglio di quest’anno di essere preoccupato per la situazione ai confini tra i due paesi nonostante la presenza dei peacekeeper russi, di cui è comunque molto soddisfatto. Il problema riguarda la restituzione dei prigionieri di guerra che, a suo avviso, è ancora insoluta. La controparte azera, tuttavia, ha dichiarato il contrario durante una conferenza stampa tenutasi nel febbraio di quest’anno, sostenendo che tutti i prigionieri di guerra sono stati regolarmente restituiti all’Armenia in linea con la Convenzione di Ginevra. Aliyev, sottolinea che il primo ministro si riferisce alla squadra di 60soggetti armati illegalmente inviati in Azerbaigian attraverso il corridoio Laçın dopo la firma dell’accordo di pace. Le modalità di attraversamento del corridoio, ufficialmente sotto il controllo della missione di pace russa, sono ancora poco note. Tale squadra avrebbe teso agguati ai danni di lavoratori impiegati in diverse opere di ricostruzione nelle aree liberate. Essendo tali soggetti penetrati in territorio azero dopo la firma del trattato, essi sono considerati terroristi e non prigionieri di guerra e, dunque, perseguiti in quanto tali dalla legge azera.
Il presidente commenta negativamente la mancanza di cooperazione armena nella regione poiché Erevan persiste sulla questione dello status, cosa che non presenta alcuna prospettiva in quanto parte sconfitta. L’Armenia dovrebbe quindi accettare la cooperazione azera, tanto più che Baku ha più volte proposto di firmare un accordo di pace. Al contrario, aggiunge Aliyev, l’Armenia si ostina a non consegnare le mappe contenenti i campi minati sparsi nella regione, azione necessaria poiché l’esattezza di quelle attualmente disponibili ammonta solo al 25%. Ciò complica ulteriormente le attività di ricostruzione, ponendo anche seri pericoli per i lavoratori e per i rifugiati il cui ritorno nello Zangılan è programmato per il prossimo anno.
A un anno dalla firma del trattato sembra dunque che i due paesi siano ancora ben lontani dal raggiungere un sostanziale accordo di pace che darebbe una svolta allo sviluppo economico della regione. L’Armenia sembra non voler abbandonare la questione dello status, mentre l’Azerbaigian preme per un’efficace realizzazione del punto nove inerente allo sblocco delle vie di comunicazione seguito dalla ricostruzione di infrastrutture chiave.
Resta anche ambiguo il ruolo della Russia e dei suoi peacekeeper impiegati essenzialmente in zone popolate da armeni, il cui rientro a Stepanakert è stato già assicurato. Inoltre, l’incontro tenutosi a Mosca in agosto tra i ministeri della difesa russo e armeno ha allarmato ulteriormente Baku. Il ministro della difesa Šhojgu ha infatti confermato che la Russia è pronta a sostenere l’Armenia nella modernizzazione delle sue forze armate. Tale affermazione si contrappone al concetto di neutralità alla base di ogni missione di pace, tanto più che Armenia e Russia appartengono entrambe all’ Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva.
Ciò lascia intravedere il sorgere di possibili problemi futuri allo scadere del mandato della missione di pace russa, dato che il trattato ignora due punti fondamentali. Infatti, la mancanza di una precisa demarcazione dei confini tra i due paesi, nonché l’assenza di una specifica definizione dello status di Stepanakert, de jure territorio azero e attualmente controllata dai peacekeeper russi, potrebbero invero contribuire a innescare la miccia di un conflitto ancora non del tutto congelato.
Laura Pennisi
[i] Il testo originale dell’accordo trilaterale può essere consultato su http://kremlin.ru/events/president/news/64384 “Заявление Президента Азербайджанской Республики, Премьер-министра Республики Арменияи Президента Российской Федерации” (Dichiarazione del Presidente della Repubblica dell’Azerbaigian, del Primo Ministro della Repubblica di Armenia e del Presidente della Federazione Russa).
[ii] Sagramoso D. (2003) Russian peacekeeping policies in Regional Peacekeepers: The Paradox of Russian Peacekeeping. Edited by John Mackinlay and Peter Cross. PP. 25-26.