Mentre prosegue l’escalation al confine polacco-bielorusso, negli ultimi giorni abbiamo assistito anche ad una crescente attività militare delle forze russe in Bielorussia. Varsavia e l’Unione europea accusano Mosca di aver scatenato l’ultima “guerra ibrida” contro l’Occidente. Ma quanta Russia c’è veramente nella crisi migratoria?
Qualche colonna di fumo sparsa, il rumore assordante di un elicottero di pattugliamento, un riparo contro il freddo rigido. Così, alle prime luci dell’alba, si mostra il campo di migranti allestito tra la cittadina bielorussa di Bruzgi e la polacca Kuznica. A separarle una barriera e un filo spinato. Dall’altra parte della barricata le migliaia di uomini di Morawiecki. Ad ognuno il proprio esercito. Tuttavia, nei giorni scorsi non è passata inosservata un’altra presenza ingombrante: quella russa. Una serie di bombardieri strategici russi ha infatti pattugliato la frontiera occidentale bielorussa. Mosca ha poi dispiegato una divisione aviotrasportata nel poligono di Gožskij, a soli 20 km in linea d’aria dal confine polacco. L’esercitazione dell’ultimo minuto è stata giustificata con l’aumento dell’attività militare da parte polacca.
A seguito di ciò, Varsavia ha immediatamente accusato Putin di aver orchestrato la crisi dei migranti. Il possibile coinvolgimento della Russia preoccupa al punto tale da aver portato Angela Merkel ad alzare la cornetta e rimproverare l’amico russo di lunga data. Due i motivi principali dietro la mossa della Merkel. Innanzitutto, la Bielorussia ha nel corso del tempo tagliato ogni tipo di rapporto con la Germania e con l’Unione europea. Sfumata dunque ogni possibilità di utilizzare un canale di comunicazione diretto con Minsk, Mosca appare l’unico tramite per veicolare ogni tipo di messaggio verso il regime di Lukašenko. Inoltre, prima di ritirarsi dalla scena, la Merkel sfrutta la propria intesa personale per trarre qualche vantaggio. La maggior parte dei migranti è infatti diretta proprio in Germania.
Putin, per contro, si è dichiarato estraneo ai fatti. La risposta sembra tuttavia non aver soddisfatto la Merkel, che a distanza di soli due giorni ha richiamato il presidente russo. Eppure, secondo la Commissione Von der Leyen, la Russia sarebbe un attore fondamentale nella nuova “tratta di esseri umani”. La principale compagnia aerea russa Aeroflot ha immediatamente negato qualsiasi coinvolgimento. Allo stesso tempo vi sono indizi che mostrano il contrario. Sono gli stessi migranti a dichiarare di essere giunti al confine polacco-bielorusso passando prima per la Federazione Russa.
In un’intervista rilasciata al canale “Rossija”, il presidente russo ha voluto in qualche modo giustificare le azioni portate avanti dalla controparte bielorussa. Tale credito da parte russa andrebbe a rafforzare l’ipotesi del Cremlino burattinaio. Diverse teorie, spesso poco credibili, sono state messe sul tavolo. Secondo alcuni, Mosca starebbe provocando un’escalation in Bielorussia per celare il vero attacco – che verrà invece sferrato in Ucraina orientale. Varie foto satellitari mostrano come la postura militare russa al confine con l’Ucraina sia stata rafforzata negli ultimi tempi.
Dunque, tra i due litiganti il terzo gode? In parte sì. Mosca non ha perso l’occasione di riportare in auge quella narrativa antioccidentale che vede Washington e i suoi alleati come la causa scatenante dell’instabilità nei Paesi mediorientali. Allo stesso modo è arrivata la tradizionale accusa contro l’Occidente di adottare doppi standard a livello internazionale. Il ministro degli Esteri Lavrov ha infatti ricordato come nel 2016 l’Unione europea siglò un accordo sui migranti col presidente turco Erdoğan, promettendo un finanziamento al governo di Ankara. Inoltre, come dimostrato dai colloqui russo-tedeschi, la crisi permette alla Russia di avere un ruolo da mediatore a livello internazionale e, di conseguenza, di riaprire il dialogo con l’Occidente.
Tuttavia, la retorica che vede Lukašenko unicamente come una pedina spostata da Mosca a proprio piacimento è quantomeno riduzionistica e frutto di una miopia tipicamente occidentale. Minsk e Mosca sono sicuramente sempre più vicine, ma mai troppo. Giusto qualche settimana fa, Lukašenko e Putin firmavano una serie di programmi volti a rafforzare l’integrazione all’interno dell’Unione statale. Un’integrazione più di facciata che altro. Le clausole del documento sono infatti spesso vaghe e non comportano cambiamenti radicali nelle relazioni tra i due Paesi. Inoltre, ad agosto di quest’anno, Batka ha ancora una volta rifiutato la costruzione di una base militare russa sul suolo bielorusso. Nell’ottica di una progressiva “nordcoreanizzazione” della Bielorussia, Lukašenko ha spesso e volentieri ricordato quanto la Bielorussia resti un Paese sovrano ed indipendente.
Con lo strappo definitivo tra Bielorussia ed Occidente, Minsk può indubbiamente esercitare una leva maggiore su Mosca. Se fino a qualche anno fa era il Cremlino a dettare le regole del gioco, adesso Lukašenko non abbassa più la testa. A conferma dell’intraprendenza bielorussa vi è la minaccia dell’interruzione dei flussi di transito del gas russo verso l’Europa degli scorsi giorni. Minaccia dalla quale Putin non ha esitato a discostarsi per ovvi motivi. Inoltre, la Polonia ha ventilato la possibilità di una chiusura definitiva della frontiera con la Bielorussia. Ciò porterebbe inevitabilmente ingenti danni economici alla Russia. In ultimo, la complicità diretta di Mosca nella crisi migratoria andrebbe sicuramente a danneggiare l’immagine di un Paese che sfrutta un determinato soft power sovranista particolarmente recettivo in determinate frange anti-immigrazione.
Vista in questa prospettiva, dunque, sarebbe piuttosto la Russia a subire le azioni bielorusse e non il contrario. Se è vero che la Bielorussia deve la propria sopravvivenza alla vicina Federazione, è altrettanto vero che Putin non può permettersi di perdere l’ultimo bastione filorusso lungo la nuova cortina di ferro. E così, per mantenere Minsk nella propria orbita, Mosca è costretta ad ingoiare il boccone amaro e ad accontentarsi di possibili intoppi durante la transizione controllata verso un’era post-Lukašenko.