Il 13 novembre, con la firma del Glasgow Climate Pact, si sono conclusi ufficialmente i lavori della COP26. In questo contesto, si è discusso molto della reale efficacia sia degli accordi presi, sia delle strategie presentate a livello nazionale. Vediamo come si è mossa Mosca e quali sono gli obiettivi concordati per la transizione energetica della Federazione.
Oltre al testo sopracitato, la COP26 ha prodotto una costellazione di accordi collaterali con target specifici, che sono stati più o meno sottoscritti in base alla volontà dei singoli attori statali. Molto spesso – come nel caso dell’accordo sul metano (Global Methane Pledge) o di quello sul carbone – è stata criticata l’assenza dei grandi emettitori dalla lista dei firmatari. Sotto i riflettori non ci sono stati solo Stati Uniti, Cina e India, ma anche la Russia, la cui decisione di raggiungere l’obiettivo delle zero emissioni entro il 2060 (e non entro il 2050, come richiesto dalle Nazioni Unite) ha cavalcato le prime pagine della stampa internazionale. Mosca figura quarta in classifica per emissioni di CO2 a livello mondiale. È quindi lecito domandarsi quale sia la strategia del Cremlino per affrontare l’inevitabile transizione verso soluzioni più “green” e per raggiungere l’importante target della neutralità carbonica.
Tuttavia, a fronte dell’assetto economico della Federazione, particolarmente sensibile alle questioni energetiche, la delineazione di questa “via russa” potrebbe non seguire le stesse logiche che stanno alla base dell’azione occidentale contro il cambiamento climatico.
Tra carbon sink e carbon tax
All’inizio del mese di novembre, più di cento paesi, tra cui la Russia, hanno sottoscritto un accordo per lo stop alla deforestazione entro il 2030. L’adesione di Mosca non ci deve sorprendere. Il territorio russo ospita un quinto delle foreste mondiali e la strategia energetica del Cremlino si basa in larga misura sull’elevato potenziale di assorbimento di anidride carbonica del proprio patrimonio forestale.
Attraverso la fotosintesi, l’ecosistema vegetale cattura anidride carbonica, trattenendola sotto forma di biomassa. Piante e alberi funzionano quindi come dei serbatoi di carbonio (carbon sink): con questo concetto, s’intende più generalmente qualsiasi metodo sia in grado di prelevare gas serra dall’atmosfera, confinandoli nel tempo in modo che non vi facciano ritorno. In questo modo, un paese dotato di uno o più carbon sink è in grado di ridurre le emissioni contabilizzate senza, di fatto, prendere provvedimenti che le riducano alla fonte. Si tratta senza dubbio di una soluzione costo-efficiente e, per questo motivo, è comprensibile che la Russia voglia investire nelle proprie foreste, non solo impedendone il disboscamento, ma anche finanziando attività di riforestazione.
Tuttavia, la strategia del carbon sink vegetale presenta una grande criticità. Trattandosi per larga parte di un metodo di riduzione delle emissioni passivo, esso non stimola investimenti in tecnologie e modelli di produzione più sostenibili, lasciando l’economia russa priva di strumenti per soddisfare i nuovi standard imposti dal mercato internazionale. Questa prospettiva non appare deleteria solo sul lungo termine; potrebbe avere, infatti, conseguenze ben più immediate.
Quest’estate, la Commissione Europea ha presentato la proposta di un “meccanismo di aggiustamento del carbonio alla frontiera” (CBAM), o carbon tax. Si tratta di un dazio applicabile a tutte le importazioni provenienti da paesi la cui regolamentazione sulle emissioni è meno severa rispetto a quella dell’Unione. L’obiettivo è quello di evitare la concorrenza sleale. Il paese più colpito dalla carbon tax europea, che sarà pienamente operativa dal 2026, potrebbe essere proprio la Russia. Mosca stima che il CBAM possa costare 7,6 miliardi di euro all’economia russa, andando a intaccare inizialmente le esportazioni di ferro, alluminio e cemento e potenzialmente anche quelle di petrolio e gas. La prima mossa del Cremlino sarà quella di stilare delle regole simili che bilancino le misure dell’Unione e proteggano le imprese nazionali. Tuttavia, si tratta sicuramente di un primo campanello di allarme: la Russia deve diversificare le proprie fonti di reddito. Per farlo, è necessario sviluppare un piano d’azione che includa l’industria sostenibile e un incremento della produzione di energia pulita.
E idrogeno fu
A questo proposito, alla COP26 la delegazione russa ha descritto l’industria elettrica nazionale come una delle meno inquinanti al mondo. Circa il 40% dell’energia elettrica in Russia è prodotta da fonti presentate come rinnovabili, in particolare dall’idroelettrico e dal nucleare. Il nucleare ha sempre rivestito e continuerà a rivestire grande importanza nella strategia energetica russa: si pensi che, su 312 delegati inviati a Glasgow a fine ottobre, quasi il 10% era composto da rappresentanti dell’industria dell’atomo. Inoltre, Mosca insiste a voler inserire nell’elenco delle fonti rinnovabili anche il gas naturale: così facendo, la percentuale di energia elettrica prodotta in modo sostenibile salirebbe all’86%.
In realtà, il gas naturale è stato tradizionalmente annoverato tra i combustibili fossili, accompagnato da petrolio e carbone. Solo di recente, sotto l’impulso del compromesso di Canfin, è stato deciso che il gas naturale entrerà a far parte della tassonomia verde dell’Unione Europea sotto alcune condizioni. In questo è accompagnato dal nucleare, il cui status era sempre stato messo in dubbio visti i rischi associati allo smaltimento delle scorie.
Il gas naturale è composto principalmente da metano: questo spiegherebbe l’assenza di Mosca dai firmatari del Global Methane Pledge, l’accordo firmato a Glasgow il cui obiettivo è ridurre le emissioni di metano del 30% entro il 2030. Tradizionalmente, l’esportazione di gas naturale ha costituito uno dei punti di forza dell’economia russa e un asso nella manica da giocare in caso di braccio di ferro tra Mosca e gli alleati europei. Il gas ha quindi una grandissima importanza non solo economica, ma anche politica per la Russia.
Tuttavia, non si tratta solo di questo. Il gas viene considerato un combustibile chiave per la transizione energetica. Questo perché può essere impiegato nella produzione di idrogeno blu, la varietà di idrogeno estratta da idrocarburi fossili. L’idrogeno blu presenta un vantaggio a livello ambientale: l’anidride carbonica rilasciata durante la sua produzione non viene liberata nell’aria, ma catturata attraverso sistemi di stoccaggio. Inoltre, attualmente l’idrogeno blu ha un costo inferiore rispetto alla sua controparte verde, che viene estratta dall’acqua tramite corrente prodotta da fonti rinnovabili. Questo fatto, unito all’elevata disponibilità di gas nel sottosuolo nazionale, ha spinto la Russia a puntare sull’industria dell’idrogeno per compensare la riduzione nella domanda di combustibili fossili. L’obiettivo, piuttosto ambizioso, è quello di aggiudicarsi una quota di mercato del 20% entro il 2030. Il Cremlino sta già lavorando per lo sviluppo di partnership internazionali: il 17 novembre il ministro dell’Industria e del Commercio russo Denis Manturov e il sultano degli Emirati Arabi Uniti Ahmed Al Jaber hanno firmato un memorandum d’intesa per lo sviluppo di tecnologie nell’industria dell’idrogeno.
Il sottile equilibrio della transizione energetica
Che la Russia, dopo una prima fase di negazionismo, dovesse interessarsi di cambiamento climatico era inevitabile. Non solo per la portata del problema, ma anche per l’importante connessione tra politiche ambientali e mercato dell’energia. Come già menzionato, l’economia russa è particolarmente suscettibile ai cambiamenti che avvengono in questo settore; indubbiamente, dietro alla decisione di diversificare la propria offerta energetica ci sono anche considerazioni economiche. Tuttavia, il cuore del vantaggio competitivo russo è costituito dagli export di gas e petrolio. La vera sfida, quindi, non è solo la lotta al cambiamento climatico, ma anche la delineazione di una strategia che non porti Mosca a tirarsi la zappa sui piedi.
Questo ottobre, durante il Forum Economico Eurasiatico di Verona, lo stesso Igor Sechin, CEO del gigante petrolifero Rosneft, ha sottolineato come il sottofinanziamento del settore energetico tradizionale potrebbe rendere ancora più fragile e volatile il mercato dell’energia. Guardando alla crescita dei prezzi in Europa di quest’autunno, appare chiaro come nel merito ci sia ancora una domanda da soddisfare; una transizione energetica eccessivamente affrettata potrebbe rendere ostico il livellamento di domanda e offerta. Sechin sostiene che, anche nel lungo termine, le fonti rinnovabili non saranno in grado di sostituire completamente quelle fossili. Sempre secondo Sechin, la neutralità carbonica potrebbe essere raggiunta senza eliminare completamente il carbone, il gas e il petrolio. La necessità di bilanciare la transizione energetica con gli interessi di un’economia fortemente dipendente dal settore degli idrocarburi sfocia in un certo particolarismo russo anche in materia di cambiamento climatico. Il Cremlino è reticente nel conformarsi a un modello di transizione energetica scandita da standard che considera spiccatamente occidentali. Per questo motivo, le speranze di cooperazione tra Europa e Russia in questo ambito non vanno seppellite, ma sicuramente ridimensionate. Intanto, il tempo scorre.
Chiara Malaponti