La crisi economica, il rincaro dei prezzi e il potere del clan Nazarbayev potrebbero spiegare quello che sta accadendo in Kazakistan. Mentre i manifestanti si scontrano con le forze di polizia, le autorità parlano di ingerenze straniere e la CSTO manda le sue truppe. Le dimensioni del Paese potrebbero risultare determinanti negli sviluppi delle prossime settimane.
A trent’anni e pochi giorni dalla dissoluzione dell’URSS, lo spazio post sovietico non sembra trovare pace. Dopo le tensioni che ancora una volta hanno attraversato l’Ucraina, ed in particolare le sue regioni sud-orientali, ora è il turno del Kazakistan. E dire che apparentemente era il Paese più stabile dell’intera Asia Centrale e senza alcuna ombra di dubbio il più ricco, complici le importanti riserve energetiche di cui è esportatore netto. Evidentemente, la transizione politica che Nur-Sultan (già nota come Astana) sta sperimentando è più complicata di quanto sembrasse in un primo momento. Parrebbe inoltre che le difficoltà economiche palesatesi in maniera piuttosto evidente negli ultimi mesi non abbiano contribuito a garantire un processo di cambiamento pacifico. Ma forse è ancora presto per trarre conclusioni.
Quello che è certo, è che da alcune ore le principali città del Kazakistan sono attraversate da un’imponente ondata di proteste (che secondo alcuni sarebbero eterodirette e non del tutto spontanee). A dare il via alle manifestazioni sarebbe stato il rincaro del prezzo del carburante e, in particolare, del GPL. Domenica scorsa, nel giro di poche ore, è più che raddoppiato a causa dell’eliminazione, da parte del governo, delle misure di controllo che lo mantenevano artificialmente contenuto. Lo stesso fenomeno si è verificato rispetto ad altri beni di consumo considerati fondamentali e la cosa non è per niente sorprendente vista la galoppante inflazione di cui soffre il Paese. Secondo alcune stime, in novembre quest’ultima avrebbe raggiunto un preoccupante 8,7%, riducendo di molto il potere d’acquisto dei cittadini. I kazaki si sono trovati nella paradossale situazione di dover pagare ingenti somme di denaro per l’acquisto di una materia prima di cui il proprio Paese è ricco, al punto da risultare, come detto, un esportatore netto di idrocarburi.
Le manifestazioni contro le autorità hanno preso avvio, proprio domenica 2 gennaio, nella città di Zhanaozen – già triste protagonista di un massacro di dimostranti nel 2011 – tra i centri più importanti del distretto di Mangghystau e non lontana da Aqtau, terminal petrolifero di rilevanza internazionale. In effetti, la regione è tra le più ricche di giacimenti e, secondo alcune fonti, a dare il via alle danze sarebbero stati gli operai di una raffineria controllata da Mangistaumunaigas, di proprietà kazako-cinese. Ben presto, e complice il malcontento popolare, le proteste si sono diffuse a macchia d’olio, arrivando a coinvolgere persino la popolazione di Almaty, vecchia capitale del Paese e centro maggiormente popoloso. Le autorità di Nur-Sultan hanno inizialmente tentato di contrastare i manifestanti ricorrendo al pugno duro, ma gli scontri tra questi e le forze dell’ordine hanno avuto un bilancio decisamente poco rassicurante. Si parla di almeno 95 agenti feriti e giungono persino notizie di appartenenti agli apparati di sicurezza schieratisi dalla parte della popolazione, dopo essersi rifiutati di caricare la folla. A causa di tali eventi, il presidente kazako Kassym-Jomart Tokayev ha proclamato lo stato d’emergenza, esteso a due settimane, che prevede il coprifuoco per tutti gli abitanti del Paese. Al contempo ha imposto al governo di calmierare nuovamente il prezzo del combustibile in un tardivo tentativo di placare le acque.
D’altronde, nella giornata di mercoledì 5 gennaio la situazione si è fatta ancora più preoccupante. Mentre la polizia, che nelle ore precedenti aveva arrestato oltre 200 persone, ha cominciato a bersagliare i manifestanti con granate stordenti e gas lacrimogeni, alcuni cittadini kazaki sono riusciti a fare irruzione nell’ufficio del sindaco di Almaty, dandolo alle fiamme. Sorte non dissimile a quella toccata alla residenza presidenziale sita nella stessa città, assaltata da manifestanti armati ed incendiata. Sembrerebbe critica anche la situazione nei pressi dell’aeroporto: mentre fonti russe raccontavano di come tutto fosse stabile ed il traffico aereo fosse regolarmente ripreso, gli outlet internazionali diffondevano la notizia di violenti scontri tra i manifestanti e le forze di sicurezza per il controllo dell’hub. Proprio per questi motivi, attorno alle 21 è stata avviata quella che è stata definita come un’operazione “anti-terrorismo”, al fine di riportare ordine in città e Tokayev ha richiesto l’intervento della CSTO. Al contempo, NetBlocks, ONG che si occupa di monitorare il traffico internet, aveva denunciato tramite il proprio profilo Twitter un blackout nazionale della rete, che già nel corso della giornata aveva subito parziali interruzioni e restrizioni. Gli stessi siti degli enti governativi risultano offline. Vista la gravità della situazione, l’esecutivo kazako ha rassegnato le proprie dimissioni, prontamente accolte dal presidente. Tuttavia ad eccezione del premier, Askar Mamin, immediatamente sostituito dal suo vice Alikhan Smailov, il governo rimarrà in carica ad interim fino a nuove elezioni. Dal canto suo, Tokayev (che ha definito i manifestanti “terroristi stranieri”) ha dichiarato che non lascerà la capitale, preda a sua volta di violente proteste, ed ha preso il posto dello storico leader kazako, Nursultan Nazarbayev, come Presidente del Consiglio di Sicurezza del Paese costringendo quest’ultimo al completo ritiro dalla vita politica. Tale decisione ha rappresentato un ulteriore timido tentativo di Tokayev di venire incontro alle richieste della popolazione, apparentemente decisa a chiudere definitivamente con il recente passato e soprattutto con la famiglia Nazarbayev. Non sorprende dunque il fatto che Tokayev abbia allontanato dall’incarico di primo vice-capo del Comitato Statale di Sicurezza Nazionale anche Samat Abish, nipote dello stesso Nursultan.
Dal 2019, del resto, l’attempato leader del Kazakistan indipendente aveva abbandonato il ruolo di Capo dello Stato, dando avvio alla lenta transizione politico-istituzionale che il Paese sta vivendo. Le imponenti manifestazioni di piazza che si sono registrate in questi giorni, sebbene cominciate per cause prettamente economiche, hanno preso una piega decisamente politica e stanno accelerando poderosamente la transizione. Lo stesso Tokayev, nel cercare un primo compromesso con il popolo kazako, ha parlato della volontà di velocizzare il processo di riforma del sistema-Paese. Dopotutto, come spesso accaduto nella storia, le scarse performance economiche portano alla rottura di quel patto sociale che consente a leader decisamente autoritari di mantenere le leve del potere. Il Kazakistan non sembra fare eccezione, in questo caso. Eppure, rimane aperto un importante interrogativo rispetto a quanto appena detto. I tentacoli del clan Nazarbayev sono piuttosto lunghi e ben inseriti nel tessuto economico-finanziario del Paese. L’allontanamento di alcune figure di spicco, tra le quali lo stesso Nursultan, e la promessa di riforme potrebbero far pensare ad una vera e propria epurazione in stile sovietico dei sodali di quel nucleo familiare che così a lungo ha tenuto in mano le redini del Kazakistan. Ma se le parole di Tokayev si rivelassero vane, ed il presidente si limitasse a provvedimenti esclusivamente simbolici, allora il cambiamento promesso sarebbe cosmetico. In sostanza, il clan Nazarbayev rimarrebbe abbastanza potente da condizionare la vita politica kazaka. Al momento in cui si scrive, è decisamente troppo presto per trarre conclusioni in un senso o nell’altro, ma ciò che è certo è che il popolo sembra volersi lasciare alle spalle proprio questo.
Un aspetto da non sottovalutare in merito alla crisi in corso è quello legato alle possibili ingerenze esterne. Proprio nelle scorse settimane, alcune eminenti figure politiche kazake (tra le quali anche persone legate in modo stretto al clan Nazarbayev) avevano parlato piuttosto esplicitamente della possibilità che il Paese venisse destabilizzato da “agenti stranieri”. Tali durissime parole di sovietica (o putiniana) memoria erano state rivolte ad alcuni giornalisti che lavoravano per testate considerate filo-occidentali, quando non apertamente finanziate dagli Stati Uniti. Visti gli interessi energetici in gioco, non sono pochi gli attori che potrebbero voler interferire con la vita politica di Nur-Sultan – e non solo sulla sponda ovest dell’Atlantico. Al momento si tratta di pure illazioni, ma il precedente delle Rivoluzioni Colorate, che Mosca ha sempre considerato eterodirette da Washington, sarà sicuramente preso in considerazione dal Cremlino. Dopotutto, almeno fino a questo momento, quanto sta accadendo in Kazakistan non sembra seguire un copione dissimile da quanto avvenuto durante le prime fasi della crisi ucraina o della Rivoluzione delle Rose georgiana. Le stesse parole di Tokayev, che, come detto, non ha esitato a definire i dimostranti “terroristi stranieri”, lasciano poco spazio all’immaginazione rispetto all’idea che vi possano essere infiltrazioni esterne.
Ad ogni modo, le reazioni internazionali non si sono fatte attendere. Il primo ministro armeno Pashinyan ha richiesto d’urgenza un incontro tra i leader della CSTO al fine di discutere della complessa situazione. Il consesso parrebbe aver preso la decisione di inviare una forza di peacekeeping per un periodo di tempo limitato. La Russia, comprensibilmente preoccupata, ha dichiarato di monitorare con attenzione gli eventi in corso in Kazakistan, invitando le parti al dialogo ed alla moderazione. Contestualmente, il Cremlino ha rafforzato le misure di sicurezza presso il cosmodromo di Baikonur. È verosimile che la crisi kazaka verrà affrontata nel corso dei negoziati bilaterali con gli USA che cominceranno il 10 di gennaio. Dal canto suo, l’Unione Europea ha esortato le parti ad agire responsabilmente, riconoscendo il diritto dei manifestanti di protestare pacificamente e in maniera non violenta. Sottolineando poi l’importanza della partnership con il Kazakistan, Bruxelles ha invitato le autorità di Nur-Sultan a non ricorrere alla forza in maniera sproporzionata, pur riconoscendo il legittimo interesse kazako nel difendere la sicurezza nazionale.
In conclusione, quanto sta accadendo proprio in queste ore nel principale Paese dell’Asia Centrale è piuttosto preoccupante. Il lancio dell’operazione anti-terrorismo non può far presagire nulla di buono, così come il rimando alla possibile presenza di agenti stranieri. Il timore che gli eventi in corso possano evolvere in maniera decisamente violenta è tutt’altro che remoto ed a tal fine sarà interessante capire che ruolo svolgeranno i Paesi membri della CSTO, così come coloro che si trovano ai confini del Kazakistan. Le autorità di Nur-Sultan non possono commettere l’errore di sottovalutare lo schieramento di alcuni membri degli apparati di sicurezza al fianco dei manifestanti, cosa che evidenzia un problema di non poco conto se le diserzioni dovessero diventare massicce. Infine, la particolare conformazione demografico-territoriale del Kazakistan rappresenta un’ulteriore fonte di ambiguità. Il Paese è molto esteso ma ben poco popolato. La cittadinanza è concentrata in relativamente pochi centri abitati, il che può rappresentare un vantaggio se, complice anche la stagione fredda, le proteste rimanessero ivi confinate. Diversamente, qualora gli scontri dovessero degenerare, superando la loro attuale dimensione urbana, mantenere il controllo di un Paese così grande diverrebbe decisamente complesso. È davvero prematuro trarre conclusioni rispetto all’evoluzione della crisi, ma i presupposti non sono buoni e le prossime settimane saranno decisive.