In questi giorni la crisi in Ucraina ha raggiunto quasi il punto di non ritorno, con una guerra tra Russia e Nato che sembrava alle porte. Ma a stemperare le tensioni è stato, inaspettatamente per molti, lo stesso governo ucraino di Zelenskij. Ce ne spiega le ragioni Fulvio Scaglione, nella prima puntata della sua nuova rubrica “Dietro lo specchio”.
Nella crisi ormai brutale dei rapporti tra la Russia e gli Usa e soprattutto tra la Russia e la Nato, si agita un paradosso difficile da spiegare. La rottura ha cominciato a prodursi molti anni fa ma l’attuale casus belli è l’eventuale ingresso nella Nato dell’Ucraina, Paese che peraltro nel 2019 ha inserito l’adesione alla Ue e all’Alleanza Atlantica tra i capitoli della propria Costituzione. Dal 2014, di fatto, l’Ucraina sostiene una guerra a bassa intensità con la Russia, che si è ripresa la Crimea, appoggia i movimenti indipendentisti e filorussi del Donbass, ha concesso la cittadinanza russa agli abitanti delle due repubbliche autoproclamate di Lugansk e Donetsk e preme, militarmente e psicologicamente, su un confine lungo 1.576 chilometri.
Il paradosso è questo. I leader dei Paesi occidentali, in primo luogo Stati Uniti e Regno Unito, insieme con il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg e il coro unanime dei politici dei Paesi dell’Est europeo, agitano ogni giorno lo spauracchio dell’invasione russa dell’Ucraina. La danno per certa, anzi imminente, ammoniscono il Cremlino e minacciano ogni sorta di reazione e ritorsione, mentre intanto forniscono a Kiev armi e consiglieri militari. L’Ucraina, al contrario, tende a ridimensionare la minaccia, a riportarla nei limiti di un confronto aspro ma gestibile. Ieri è stato il ministro degli Esteri Kuleba a dire che la Russia non ha forze sufficienti al confine per un attacco su vasta scala, subito affiancato dal vice-ministro degli Interni Evhenij Yenin (“Il rischio di un attacco russo c’è ma non è lo scenario più probabile e non è imminente”). Negli scorsi due mesi, al ritmo di una volta la settimana, è stato Oleksij Danilov, segretario del Consiglio di Sicurezza e Difesa dell’Ucraina, a ribadire il concetto, ripetendo che sì, i russi spostavano truppe qua e là ma che non si avvertiva una concreta minaccia. È intervenuto il ministro della Difesa Reznikov: “Le forze armate russe non hanno creato gruppi d’attacco con cui lanciare un’offensiva”. E persino il presidente Zelenskij ha registrato un video in cui invitava gli ucraini a non temere una minaccia che, lasciava capire, era largamente enfatizzata dagli “amici” occidentali. Addirittura il Centro per le strategie di difesa di Kiev ha trovato il modo di scrivere che “un’operazione russa su larga scala contro l’Ucraina nel 2022 sembra improbabile, anche prendendo in considerazione i soli aspetti militari”.
Chi ha ragione? Stoltenberg, che vuole addirittura muovere i 5 mila uomini della forza di reazione rapida della Nato, o Danilov che ridimensiona? Ma soprattutto: perché si produce questa strana distonia tra i protettori (Nato, Usa, Regno Unito…) e la vittima potenziale? Potrebbe, ovviamente, essere un grande gioco delle parti, tipo il “poliziotto buono-poliziotto cattivo” dei film di Hollywood. Usa & C. tuonano e strepitano mentre gli ucraini mostrano buona volontà e disponibilità a trattare un accordo. Alla Russia, invasione o no, resta il ruolo del cattivo.
È un’ipotesi. Ma forse la realtà è più terra terra e l’Ucraina sta sperimentando quanto sia veritiero il proverbio indiano che ricorda: quando gli elefanti litigano, è l’erba che soffre. L’Ucraina, a dispetto della discreta stabilità raggiunta, non sta bene. L’ormai lunghissimo scontro con la Russia la obbliga a impegnare uomini e risorse in una mobilitazione perenne. Si batte testa a testa con la Moldova per il titolo di Paese più povero d’Europa. Patisce una fuga delle braccia e dei cervelli che ne fanno il settimo Paese al mondo (World Migration Report del 2020) per origine dei migranti, con circa 3 milioni di lavoratori nei Paesi della Ue e altri 3 milioni in Russia che, con le loro rimesse, producono il 10% del Pil nazionale. Un esempio: i dati delle guardie di frontiera polacche e dell’ambasciata ucraina a Varsavia mostrano che nel 2020, all’esplodere della pandemia, nel solo periodo tra metà marzo e la fine di aprile, da 150 a 180 mila ucraini sono tornati in patria dalla Polonia. Non a caso in Ucraina non si fa un censimento della popolazione dal 2011, quando furono registrati 48,2 milioni di abitanti.
In una situazione come questa l’enfasi sull’allarme invasione rischia di produrre conseguenze catastrofiche. Più emigrazione, visto che al bisogno si aggiunge la paura. Meno investimenti dall’estero. Titoli di Stato più difficili da vendere. Scambi commerciali ridotti. Valore della moneta in calo. Più povertà. E consenso in caduta libera per chi governa, a cominciare dal presidente Zelenskij, che a meno di tre anni dalla trionfale elezione del maggio 2019 ormai gode del consenso di un modesto 27% degli elettori, contro un 50% che lo stronca. Così, ancora una volta, paradosso nel paradosso, il percorso dell’Ucraina diventa analogo a quello della Russia. Mosca è comunque cattiva, invada o non invada. Ma Kiev è comunque vittima, sia invasa oppure no.
Fulvio Scaglione