Dopo un trentennio di assenza di dialogo, frontiere chiuse e accuse reciproche, Armenia e Turchia stanno muovendo i primi passi verso un processo di normalizzazione. Molto rapidamente e con la sorpresa di tutti. Antiche ferite mai rimarginate e tentativi di riavvicinamento falliti non lasciano ben sperare, ma forse qualcosa sta cambiando. Sarà la volta buona?
Quasi da ogni angolo della capitale armena si intravede solenne e maestoso il mitico monte Ararat. Così vicino eppure così lontano, simbolo della civiltà armena rimasto però entro i confini dell’attuale Turchia, insieme alla maggior parte di quella che fu un tempo la Grande Armenia. Paradiso perduto per un popolo che da lì fu brutalmente cacciato per non potervi fare più ritorno.
Eppure oggi quella distanza apparentemente insormontabile tra gli armeni e la loro madrepatria imprigionata oltreconfine potrebbe accorciarsi, simbolicamente sorvolata dalla ripresa dei voli diretti tra i due Paesi. Dopo trent’anni senza alcun collegamento, a febbraio decollerà infatti da Istanbul il primo volo per Erevan. E nel frattempo nella capitale armena ci si prepara a revocare l’embargo sull’importazione di prodotti turchi introdotto a seguito del sostegno fornito da Ankara a Baku durante la guerra dei 44 giorni. Concreti segnali di una volontà di riavvicinamento tra due Paesi che la storia ha messo l’uno contro l’altro: una volontà che ha preso forma nell’incontro del 14 gennaio tenutosi a Mosca tra Serdar Kuliç e Ruben Rubinyan, i rappresentanti speciali nominati rispettivamente da Turchia e Armenia per avviare un processo di normalizzazione delle relazioni bilaterali. Ristabilimento di relazioni diplomatiche e riapertura dei confini, i primi obiettivi da perseguire.
A poco più di un anno dall’ultimo conflitto in Nagorno-Karabakh, che aveva fatto tremare le montagne del Caucaso, una ventata di ottimismo si propaga ora dal confine turco-armeno e abbraccia l’intera tormentata regione. Niente di nuovo però per quelle montagne che nulla dimenticano.
Tentativi di normalizzazione
Nel contesto geopolitico creatosi con l’implosione dell’URSS, sia Armenia che Turchia avevano intravisto un’opportunità per mettere da parte la propria dolorosa storia e instaurare relazioni diplomatiche, mai realmente esistite sino a quel momento. La Turchia si era affrettata a riconoscere la neonata Repubblica d’Armenia, che, a sua volta, consapevole delle proprie difficoltà economiche e della necessità di aiuti esterni (anche occidentali), guardò di buon grado agli intenti riconciliatori turchi. Ma questi tentativi furono travolti dallo scoppio della guerra nel Nagorno-Karabakh. L’occupazione da parte armena di territori legalmente azeri portò Ankara in nome della “solidarietà pan-turca” a chiudere nell’aprile 1993 le frontiere con Erevan, vincolandone la riapertura alla risoluzione del conflitto. Da allora le frontiere non sarebbero più state riaperte, mentre la politica estera turca verso l’Armenia rimaneva “prigioniera dell’alleanza con l’Azerbaigian”[1].
E lo sarebbe stata anche 15 anni più tardi, quando Turchia e Armenia tentarono un nuovo rapprochement. Nel 2008 una nuova guerra, quella russo-georgiana, aveva rimescolato le carte in tavola nello scacchiere caucasico. La guerra in Georgia, minacciando il principale canale di comunicazione con il resto del mondo (e con la Russia) che rimaneva all’Armenia, ne aveva messo a nudo tutto l’isolamento. Ma aveva anche manifestato la vulnerabilità del sistema di transito incentrato sul territorio georgiano che Ankara aveva sponsorizzato. D’altra parte, il deterioramento dell’immagine russa nella regione apriva invece le porte a nuove opportunità per le ambizioni turche e un miglioramento dei rapporti con l’Armenia, peraltro coerente con la politica di azzeramento dei problemi con i vicini propugnata dal governo dell’AKP, avrebbe consentito alla Turchia di coglierle a pieno.
Fu così che il 6 settembre 2008 il presidente turco Gül si recò a Erevan su invito dell’omologo armeno Sargsyan per assistere alla partita di calcio delle rappresentative dei due Paesi: era la prima visita di un presidente turco in Armenia. Un anno più tardi la cosiddetta “diplomazia del pallone” avrebbe portato alla firma dei protocolli di Zurigo (2009) per la riapertura dei confini e lo sviluppo di relazioni commerciali, “senza precondizioni”: nei protocolli infatti, “capolavoro di diplomazia”[2], le eterne controversie tra i due Paesi, genocidio armeno e Nagorno-Karabakh, non venivano menzionate, rimandate ad un secondo momento.
Eppure il 22 aprile 2010 la ratifica dei protocolli fu bloccata dall’Armenia a seguito del dietrofront turco – che ancora una volta di fronte al veto azero aveva vincolato la normalizzazione alla restituzione del Nagorno-Karabakh all’Azerbaigian. Travolto dalla spirale di conflittualità del Caucaso meridionale, il processo di normalizzazione è stato sacrificato sull’altare della sempre maggiore rilevanza che il “fratello minore” azero ha acquisito agli occhi di Ankara[3]. Il risveglio delle antiche ferite tra le due popolazioni (e forse anche una certa insoddisfazione russa) ha fatto il resto. Gli equilibri subcaucasici sono così rimasti cristallizzati lungo le consuete linee di frattura e affinità. Almeno fino ad oggi.
Nuove opportunità, antiche sfide
È di nuovo una guerra a scuotere gli equilibri caucasici. Con la riconquista da parte azera nel novembre 2020 di gran parte delle terre occupate dall’Armenia, è di fatto venuto meno il principale vincolo che la Turchia aveva posto alla normalizzazione con Erevan, vincolo su cui si erano infranti tutti i tentativi precedenti.
Innegabili i vantaggi che un’apertura dei confini tra i due Paesi porterebbe con sé. Innanzitutto economici: tanto per la Turchia, che accedendo ad un nuovo mercato potrebbe dare fiato ad un’economia in difficoltà, in particolare proprio nelle regioni più povere dell’Anatolia orientale, quanto per l’Armenia, che ha da sempre subito i costi della mancanza di sbocco sul mare e dell’isolamento. Con l’apertura, Erevan potrebbe beneficiare del commercio diretto con Ankara e attraverso quest’ultima accedere ai mercati occidentali. Senza contare i benefici che un possibile coinvolgimento nelle reti di trasporto e transito energetico del Caucaso meridionale potrebbero riservare alla piccola repubblica caucasica che fino ad ora ne è stata esclusa.
Significativi anche i vantaggi politico-strategici. L’Armenia potrebbe così ridurre la propria dipendenza dalla Russia e perseguire una politica estera più bilanciata che attraverso la Turchia potrebbe rivolgersi anche ad altri membri della NATO. Ankara, dal canto suo, il cui contributo alle vittorie militari azere del 2020 è stato forse in parte offuscato dalla mediazione russa del conflitto, potrebbe vedere rafforzata la propria influenza nella regione. Ne beneficerebbe anche l’immagine internazionale della Turchia soprattutto in quell’Occidente spesso critico nei suoi confronti.
E in particolare negli Stati Uniti, dove l’amministrazione Biden nell’aprile 2021 ha riconosciuto ufficialmente il genocidio armeno e avrebbe esortato l’omologo turco ad attivarsi per la normalizzazione con Erevan[4]. L’impegno turco in questa direzione potrebbe essere accolto positivamente a Washington, soprattutto considerati i contrasti sorti negli ultimi anni tra i due alleati e culminati con l’acquisto da parte di Ankara di missili S-400 russi.
Se il sostegno occidentale non sorprende, decisamente più inaspettati sono i toni concilianti adottati dall’Azerbaigian. Del resto, Ankara, memore dell’errore commesso nel 2008, ha rassicurato l’alleato azero promettendone il pieno coinvolgimento nel processo di normalizzazione[5]. Se la reazione azera è sicuramente promettente, è tuttavia possibile che Baku, forte della propria vittoria nel Nagorno-Karabakh, cerchi di sfruttare il riavvicinamento dei vicini a proprio vantaggio, in particolare per ottenere il controllo del Corridoio di Zangezur che gli consentirebbe un collegamento diretto con l’exclave del Nakhchivan. Se per sostenere l’alleato la Turchia accettasse di condizionare i negoziati con l’Armenia all’irrisolta questione del Corridoio di Zangezur, la normalizzazione sarebbe a rischio[6].
Ma a gravare sul futuro dei negoziati è anche l’incognita russa. Equivoca nel 2008, Mosca esprime oggi pieno sostegno a favore della normalizzazione turco-armena. Anche la Russia non potrebbe che beneficiare dalla maggiore stabilità e prosperità economica potenzialmente derivante dall’apertura delle frontiere turco-armene, ma è sul divide et impera che Mosca ha costruito la propria posizione nel Caucaso meridionale. E per quanto la sua influenza sembrerebbe salva grazie alla presenza di peacekeeper nel Nagorno-Karabakh, un riavvicinamento tra Armenia e Turchia rischierebbe di mettere in discussione la supremazia russa nella regione e la sua presa su Erevan.
Come è stato notato, la strategia russa nel Caucaso meridionale si sostanzia nel “mantenere l’Armenia vincolata a sé, costruire legami con l’Azerbaigian allontanandolo dalla Turchia sulla questione armena, rafforzare la cooperazione regionale ed energetica con la Turchia, ed evitare che gli Stati Uniti siano troppo coinvolti nelle negoziazioni”[7]. Un equilibrio estremamente delicato da perseguire. Se nel 2008, consapevole delle difficoltà intrinseche del progetto, il Cremlino lasciò che gli eventi seguissero il proprio corso[8], oggi se ne assicura il controllo proponendosi – ancora una volta nel Caucaso – come mediatore e ospitando a Mosca i primi colloqui. Resta da capire fino a quando Ankara, che già nervosa invoca la necessità di colloqui diretti, consentirà a Mosca di patrocinare il processo. Molto infatti dipenderà dall’andamento delle volatili relazioni tra i “frenemies” russo-turchi.
In ogni caso Erdoğan e Pashinyan sembrano determinati a proseguire. Si tratta tuttavia, almeno per il momento, di un processo puramente top-down[9], voluto e gestito ad alti livelli. Entrambi i governi dovranno però affrontare le rispettive opinioni pubbliche. Erdoğan, pur avendo conseguito un maggior controllo del Paese rispetto a 15 anni fa, deve comunque confrontarsi, tanto più in vista delle imminenti elezioni, con gli alleati ultra nazionalisti. Pashinyan, dal canto suo, pur potendo contare sul maggior consenso accordatogli con la recente rielezione, dovrà affrontare il riacceso rancore della popolazione nei confronti dei turchi per il loro sostegno militare all’Azerbaigian durante la guerra armeno-azera. Rancore che ha riaperto nella coscienza armena l’antica ferita del genocidio e della sua negazione da parte turca.
Principale interprete della causa armena è stata la diaspora, particolarmente forte negli Stati Uniti, che ha sempre considerato il riconoscimento del genocidio un prerequisito per qualsiasi apertura nei confronti di Ankara, respingendo sempre la proposta turca di affidare la questione ad una commissione di storici. L’importante traguardo conseguito con il riconoscimento del genocidio da parte degli Stati Uniti potrebbe però rendere la posizione della diaspora armena meno intransigente. Il rancore per i massacri del 1915 e l’esclusione da gran parte di quella che è stata la Grande Armenia[10] rimane però profondamente radicato nella popolazione. La “causa armena” saldatasi con quella del Nagorno Karabakh ha definito l’identità nazionale stessa del popolo armeno, in contrapposizione all’“alter” turco/azero[11], e ha rappresentato una fonte di legittimazione per le istituzioni nazionali stesse.
Per tale ragione, per quanto i due governi dichiarino di non voler vincolare i negoziati a “nessuna precondizione”, come era già accaduto in passato, nodi così profondi e costitutivi delle due realtà, eredi di un riaggiustamento post imperiale di cui ancora si percepiscono le scosse, non potranno che venire al pettine. Del resto, normalizzazione non è necessariamente riconciliazione[12], o almeno non deve esserlo nell’immediato. Ma i contatti tra i popoli che l’apertura dei confini consentirebbe potrebbero restituire al nemico demonizzato dalla memoria storica un volto “umano”. Contribuendo a ridurre la radicata sfiducia tra armeni e turchi/azeri, probabilmente il più grande ostacolo alla risoluzione dei conflitti che gravano sui confini armeni. E forse allora il mitico Ararat potrebbe apparire agli armeni un po’ meno lontano.
Elena Tagliaferri
[1] C. Frappi, La normalizzazione tra Turchia e Armenia: nuove opportunità e vecchi ostacoli, ISPI Policy Brief, N. 126, Aprile 2009, p. 1.
[2] C. Tosi, Tra Ankara ed Erevan la partita è finita, Limes “Il ritorno del sultano” N. 4/2010.
[3] C. Frappi, Turchia e Russia nel vicinato comune. Cooperazione e competizione nel Caucaso meridionale,Il Politico (Università di Pavia), N. 3, 2014 p. 211.
[4] https://www.bloomberg.com/news/articles/2021-12-13/turkey-moves-to-normalize-armenia-ties-in-bid-to-please-biden.
[5] https://www.hurriyetdailynews.com/turkey-armenia-launch-normalization-talks-in-moscow-170753.
[6] T. De Waal, Third Time Lucky for Armenia and Turkey?, Carnegie Europe, 20.01.2022.
[7] https://worldview.stratfor.com/article/russia-trying-maintain-balance-caucasus
[8] I. Torbakov, Russia and Turkish-Armenian Normalization: Competing Interests in the South Caucasus, cit., p. 38.
[9] T. De Waal, Third Time Lucky for Armenia and Turkey?, cit.
[10] L’attuale confine tra Turchia e Armenia, che separa quest’ultima dall’Armenia occidentale, non è mai stato riconosciuto dal governo di Erevan.
[11] M. Valigi, G. Natalizia, C. Frappi, Il ritorno della geopolitica. Regioni e instabilità dal Mar Nero al Mar Caspio, Edizioni Epoké, Novi Ligure, 2018, p.126.
[12] T. De Waal, Third Time Lucky for Armenia and Turkey?, cit.