La guerra e le possibili crepe nella dirigenza russa. Apparentemente compatta per obbedire all’intransigenza di Putin, ma sicuramente intimorita dagli sviluppi. L’impatto sugli affari peserà sull’appoggio degli oligarchi, senza contare il sentire comune dei cittadini.
In quella religione laica che chiamiamo politica la liturgia conta. Non è certo un caso se dalle tappezzerie consunte della perestrojka siamo arrivati ai saloni pieni di stucchi e ai tavoloni sconfinati della Russia orgogliosa di sé che vuole Vladimir Putin. Dovremo quindi ricordarci di ciò che abbiamo visto qualche giorno fa, quando l’invasione dell’Ucraina era alle porte. Putin convoca i dodici membri permanenti del Consiglio di Sicurezza per discutere se riconoscere o no le due Repubbliche del Donbass. Salone enorme, marmi ovunque, i dodici boiari raggruppati lontano, lo zar dietro uno ieratico tavolo bianco.
È in diretta Tv, e lo scopo è chiaro: tutti devono metterci la faccia di fronte alla nazione, deve sembrare (e, quindi, essere) una decisione collettiva, unanime. E infatti quando Sergej Naryshkin prova a suggerire una linea più morbida, con un ultimo appello negoziale all’Occidente, Putin si altera, lo fulmina e di fatto lo obbliga a dire che anche lui è per il riconoscimento di Donetsk e Lugansk. Naryshkin non è uno qualunque. È direttore del controspionaggio dal 2016, prima è stato capo dello staff del Cremlino e presidente della Duma, è con Putin da sempre. Tu quoque Bruto, deve aver pensato Putin.
E sempre a proposito di facce. Quella di Naryshkin era tutta un programma ma anche le altre… Marmoree quelle del ministro degli Esteri Lavrov e del ministro della Difesa Shoigu, sfatte quelle della Matveenko (presidentessa del Consiglio della Federazione) e di Volodin (presidente della Duma), attonite quelle di Zolotov (l’ex body guard di Eltsin diventato capo della Guardia Nazionale) e del ministro degli Interni Kolokol’cev, che sembravano chiedersi “che ci faccio qui”, impassibile quella di Bortnikov, il direttore dell’Fsb. Nessuna sensazione di vivere un momento storico. Entusiasmo zero, piuttosto panico da responsabilità. I boiari già sapevano che sarebbe stata guerra. Lo stesso Putin, peraltro, negli ultimi giorni è parso quasi irriconoscibile. Il freddo scacchista ha lasciato spazio a un leader iroso e aggressivo, minaccioso, o in certi passi violento.
Insomma, c’è la sensazione che non tutto stia scorrendo liscio al Cremlino e che il gruppo dirigente riunito intorno a Putin questa volta, dietro la facciata, sia tutt’altro che unito e concorde. D’altra parte la Russia ora rischia grosso, su due fronti. Quello esterno, con le sanzioni, la prevedibile interruzione di molti canali finanziari, la riduzione delle relazioni commerciali con l’Europa, la riorganizzazione forzata della produzione nazionale. E quello interno, non meno delicato. La Russia viene da anni di stagnazione o di crescita minima, il 2021 è stato molto duro (inflazione al 10%, potere d’acquisto reale dei salari in calo, prezzi dei generi alimentari di base su del 10-15%), l’insoddisfazione della gente è palese e solo con qualche trucco (sussidi pre-elettorali a militari e pensionati, voto elettronico…) alle elezioni politiche Putin è riuscito a conservare a Russia Unita la maggioranza assoluta nella Duma.
In un simile quadro, la guerra in Ucraina potrebbe trasformarsi in un boomerang per la Russia e colpire il Cremlino due volte. Dal basso, con l’insoddisfazione di un popolo costretto ad altri e più gravi sacrifici e, magari, anche ad accogliere le bare di tanti giovani soldati. Ma anche dall’alto. Ieri Putin ha incontrato un gruppo di grandi imprenditori russi e, dopo aver sottolineato che la guerra in Ucraina era ormai inevitabile, ha detto: “Non credo che ai nostri partner occidentali convenga spingerci fuori dal sistema economico mondiale ma potrebbe succedere, e alcune misure ci saranno senza dubbio. Noi dobbiamo garantire una maggiore libertà d’impresa, assicurando da parte del governo una azione prevedibile. Vi chiedo aiuto per sostenere la situazione economica che si verrà a creare da questa situazione”.
Non siamo ancora al “sangue sudore e lacrime” di churchilliana memoria ma nei dintorni sì. Ed è facile immaginare quanto possa piacere un simile annuncio a una classe imprenditoriale (oligarchica o no) che è chiamata a manovrare le leve economiche della Russia essendo totalmente esposta alle tensioni della politica. Una classe che, in questi anni, ha fatto i salti mortali per non perdere i contatti internazionali (nel 2021 la Russia ha esportato in Europa per 178 miliardi di dollari e importato per 104) ma che nulla può fare contro una bufera come quella scatenata da Putin.
Gli imprenditori russi, negli ultimi anni, si sono fatti di tanto in tanto sentire. La loro voce, messo in un cantone il “liberale” Dmitrij Medvedev, ex presidente ed ex premier da tempo in disgrazia, è Aleksej Kudrin, ministro delle Finanze dal 2000 al 2011, la fase più espansiva e ricca di risultati del ventennio putiniano, e da anni presidente della Corte dei Conti. Fa il grillo parlante, ricorda che al sistema produttivo russo servirebbe meno dirigismo e più libertà, che bisognerebbe andare più d’accordo con l’Occidente, che la Russia deve stare nel mondo. Non lo ascoltano. Ma domani, quando il rischio di essere spinti “fuori dal sistema economico mondiale” si facesse più forte?
Fulvio Scaglione