È in corso il più grande conflitto armato tra Paesi dello spazio post-sovietico dal 1991. Uno stato di 144 milioni di abitanti che invade un altro di 44, sono questi i dati demografici dello scontro Russia-Ucraina che sta avvenendo alle porte dell’Europa. In questo scenario apocalittico, nessuno immaginerebbe che anche l’acqua possa essere una delle cause di questo conflitto.
Si sta consumando alle porte di casa nostra una potenziale catastrofe umanitaria che porterà centinaia di migliaia di profughi verso l’Unione Europea, come già si sta assistendo in Polonia, Romania e Moldova. In questo scenario, dove notizie verificabili e fake news si sovrappongono a ritmi altissimi, risalire con esattezza alle cause scatenanti del conflitto può risultare quasi impossibile. Fattori geopolitici, errori umani, crisi di nervi: tutti questi elementi hanno concorso allo scoppio della guerra nella notte tra mercoledì 23 e giovedì 24 febbraio. Ci sono, tuttavia, cause profonde e chiaramente identificabili che, se interpretate per tempo, avrebbero potuto aiutare a far immaginare che tra i due Stati si sarebbe giunti ad una resa dei conti. Uno di questi fattori scatenanti è certamente l’acqua.
La Crimea ha sete di Dnipro
Non molto abbondante sul suolo ucraino, l’oro azzurro è stata una delle prime risorse a scarseggiare in Crimea dopo l’annessione russa del 2014. Piogge scarse e limitate alla porzione meridionale della regione, fiumi dalla portata irregolare e un clima secco, soprattutto a nord, hanno reso necessaria per l’allora Unione Sovietica la creazione di quello che ha preso il nome di Canale Crimeano Settentrionale. Si tratta di un’opera gigantesca che devia parte delle acque del Dnipro e le trasporta fino agli aridi villaggi affacciati sul Mare d’Azov. Il funzionamento di quest’infrastruttura è fondamentale per le attività economiche della Crimea, motivo per cui la prima azione che Kiev ha messo in campo dopo l’annessione russa è stata chiudere i rubinetti. Il danno che ne è conseguito ha avuto dei costi altissimi per la regione che, nel 2014, anno del distacco dall’Ucraina, dipendeva per oltre l’86% delle sue forniture idriche dal canale. A livello agricolo si è avuto un vero e proprio collasso, passando da 300.000 ettari di terre arate a soli 13.400 ettari nel 2015. L’industria di base, allo stesso modo, ha sofferto pesantemente dalla drastica riduzione della disponibilità d’acqua. Questo ha creato un vero e proprio contenzioso tra la Russia e l’Ucraina, tutto giocato in punta di diritto internazionale umanitario.
In sintesi, l’Ucraina dovrebbe garantire la quantità minima per assicurare la vita degli abitanti della Crimea, pur non controllandola più, mentre la restante parte, quella per usi agricoli e industriali, dovrebbe essere trasferita dalla Russia. Nessuno dei due Stati, nei fatti, ha provveduto a questo dettato: Kiev ha mantenuto irremovibilmente chiusi i rubinetti per continuare ad esercitare pressione sulla Crimea e sui suoi occupanti, mentre Mosca ha riscontrato delle oggettive difficoltà nel rifornire d’acqua la penisola. Dall’inseminazione delle nubi all’esplorazione del sottofondo marino per cercare nuove falde, fino alla creazione di invasi artificiali e pozzi artesiani, la Russia ad oggi non è mai veramente riuscita a soddisfare le esigenze della popolazione della Crimea. È il tipico caso di un Paese militarmente ed economicamente superiore che sconta i limiti dettati dalla geografia nelle dinamiche di potere idropolitico. Sebbene l’Ucraina abbia dovuto desistere su molti aspetti politici e militari dopo l’annessione della Crimea e la nascita delle repubbliche separatiste di Donetsk e Lugansk, infatti, su questa particolare questione era Kiev a tenere il coltello dalla parte del manico. Ecco perché uno dei primissimi obiettivi dell’attacco russo nella giornata di giovedì 24 è stato proprio il basso corso del fiume Dnipro.
Uno degli obiettivi nel fronte meridionale
Il Canale Crimeano Settentrionale è stato conquistato dalle forze russe già nel pomeriggio del 24 febbraio, con il conseguente annuncio della sua riapertura. Sulle tempistiche di un ritorno a pieno regime, tuttavia, alcuni dubbi erano stati sollevati in quanto gli scontri e la mancata manutenzione ne hanno indebolito la struttura. Sono stati necessari due giorni, con le prime forniture nella giornata del 26 febbraio, prima che la Crimea potesse ricevere di nuovo l’acqua del Dnipro, mentre la popolazione crimeana avviava i preparativi per ricevere il flusso.
Questo pone, però, un interrogativo pressante per la Russia: se i rifornimenti alla penisola in futuro dovranno essere certi e costanti, come si combinerà tale bisogno con un ritorno del basso corso del Dnipro all’Ucraina dopo la guerra? I duri combattimenti nei pressi di Kherson risolvono, in parte, quest’interrogativo. La Russia con molta probabilità non si limiterà a pretendere solo il riconoscimento della Crimea e delle repubbliche del Donbass quali territori non più ucraini – sulla prima è una certezza, sulle seconde il Parlamento russo già da tempo si sta interrogando – ma è credibile si chieda all’Ucraina di cedere anche altri territori per garantire un collegamento fisico tra la Crimea, il basso corso del Dnipro e il Donbass. Si tratta di territori con fortissime presenze russofone, motivazione in più per Mosca, e soprattutto tale scelta eviterebbe alla penisola crimeana di restare nell’incertezza delle forniture idriche. Con il rischio di una seconda guerra, stavolta per l’acqua.