I tempi dove le sorti di una guerra si decidevano solamente in base al numero dei caduti sono finiti. Strumenti come la propaganda, la censura e la creazione di contenuti online (talvolta fuorvianti) creano dinamiche interne ed esterne in grado di plasmare la risonanza e la percezione degli eventi. Una delle più amare conseguenze di questo scontro online è sicuramente il crescente clima di ripugnanza e disprezzo anche tra coloro che la guerra non la vivono in prima persona, ma la combattono a colpi di click.
Nessun uomo nasce per uccidere, gli viene detto di uccidere. Nessun uomo nasce per bombardare, gli viene detto di bombardare. Nessun uomo nasce per morire, o meglio, nessun uomo nasce per andare a morire, gli viene detto di andare a morire, o al massimo lo sceglie, talvolta prendendo decisioni più grandi di sé. Quando un uomo diventa soldato, però, la morale lascia spazio al dovere e il dovere legittima ogni tipo di azione, specialmente se il nemico da avversario viene percepito meno come uomo e più come belva. È proprio su questo, infatti, che agisce la manipolazione delle informazioni, uno strumento molto efficace sia nel rimarcare la disumanità del nemico, che nel prevenire azioni e proteste dal basso contenendo l’opinione pubblica, spesso indignata nei confronti delle atrocità belliche. Valido per la Prima Guerra Mondiale, valido per la Seconda, per quella di Corea e per quella del Vietnam, valido per l’Afghanistan e tutte le altre guerre susseguitesi nel corso degli anni, questo discorso si protrae nel tempo, fino alla guerra contemporanea, quella in Ucraina. Se da un lato i civili si armano con le molotov e combattono per un perché, ovvero difendere la propria nazione dall’invasore, dall’altro, invece, i soldati russi vengono spediti al fronte nel nome della patria, talvolta senza neanche sapere il perché, essendo le informazioni filtrate e i media controllati dallo Stato. Alcuni di loro convinti di dover prendere parte a delle esercitazioni, altri costretti a firmare contratti fuorvianti, altri ancora assicurati di essere accolti dagli Ucraini come liberatori, forse l’unico modo per spingerli a combattere una guerra voluta quasi solamente dall’alto. La guerra in Ucraina è solo il più recente dei teatri, infatti, dove il conflitto tradizionale è stato affiancato dalla cosiddetta “guerra dell’informazione”.
La Russia sicuramente non è nuova a questo tipo di manipolazione, visto il suo passato sovietico durante il quale le operazioni di disinformazione erano gestite dal KGB, supremo organo di sicurezza dell’URSS i cui obiettivi erano quelli di raccogliere e manipolare informazioni, proteggere i leader sovietici, organizzare operazioni di controspionaggio e silenziare il dissenso[1], citando solamente alcuni esempi. Al giorno d’oggi, l’Unione Sovietica si è dissolta, ma l’originale tecnica basata sulla dezinformacija (disinformazione) rimane, una tecnica che si differenzia dalle operazioni di spionaggio e counterintelligence, dalla diplomazia tradizionale e dalle attività comuni di informazione, essendo lei stessa basata sulla manipolazione degli individui, dei governi e del pubblico. La propaganda viene definita, infatti, come “azione intesa a conquistare il favore o l’adesione di un pubblico sempre più vasto mediante ogni mezzo idoneo a influire sulla psicologia collettiva e sul comportamento delle masse” per raggiungere gli obiettivi sperati (bellici e non). Sposando la versione propagandista del Cremlino, infatti, è stata proprio l’Ucraina, tramite la sua corrente postura filoatlantica sempre più marcata, a scatenare un’azione russa, puramente di carattere difensivo; infatti, l’offensiva di Mosca doveva essere intesa come una reazione, piuttosto che come un’azione. Così come negli anni della Guerra Fredda quando gli Stati Uniti, secondo la dottrina Monroe, resero ufficiale la volontà di difendere ogni millimetro del continente americano da un’eventuale minaccia russa, al giorno d’oggi, la Russia doveva agire per difendere il territorio ucraino in ogni sua parte da ogni allargamento della NATO, essendo considerato sotto la propria sfera di influenza. Questa non è solo la lettura di Putin, ma anche la versione dei fatti che deve trasparire dai media dello Stato.
La pubblicazione di informazioni contrarie a questa visione, per l’appunto, è diventata punibile con 15 anni di carcere attraverso una legge adottata da Mosca il 4 marzo 2022, la quale mette in serio pericolo non solo i restanti media indipendenti della nazione, ma anche la vita stessa dei giornalisti, costretti alla fuga pur di salvare la loro carriera. Attraverso il Roskomnadzor, Servizio federale per la supervisione nella sfera della connessione e comunicazione di massa, il Cremlino ha ordinato immediatamente a tutti i media indipendenti l’uso esclusivo di fonti governative ufficiali ed ha vietato la riproduzione di informazioni contenti le parole “attacco, invasione, guerra”, le quali devono essere sostituite da “operazione speciale”. Lo Stato ha anche conseguentemente bloccato all’incirca 30 media indipendenti russi e ucraini, Dožd’ e Novaya Gazeta, per esempio, i quali sono stati silenziati in seguito alla pubblicazione di un articolo dal titolo “La Russia bombarda l’Ucraina”. Per gli spettatori della Tv russa, infatti, quella odierna deve essere soltanto un’operazione militare dalla portata chirurgica, eventualmente trasformata in guerra dal governo di Zelensky.
Se la censura agisce a livelli interno, la “guerra d’informazione”, invece, agisce a livello esterno ed è per questo che la risposta europea, di fronte a questa versione dei fatti, non è tardata ad arrivare. A partire dal 2 marzo 2022, l’accesso ai due media russi più influenti all’estero, Russia Today (canale televisivo satellitare russo) e il quotidiano online Sputnik (pubblicato in numerose lingue) è stato vietato da “tutti i mezzi di trasmissione e distribuzione, come via cavo, satellite, IPTV, piattaforme, siti web e app” perché sono “beni di disinformazione e di manipolazione delle informazioni del Cremlino” e “strumenti essenziali e determinanti per portare avanti e sostenere l’aggressione della Russia contro l’Ucraina”.
Per gli occidentali, invece, la realtà è una e una sola soltanto: è stata la Russia a muovere le proprie truppe varcando il confine con l’Ucraina, violando la sovranità territoriale di tale Stato. A seconda delle due versioni dei fatti cambiano anche le opinioni riguardo i due leader. Da una parte Zelensky è diventato ben presto il simbolo della resistenza, resistenza espressa sia dalla sua volontà di rimanere sul terreno di guerra, che dalla sua mise. Il presidente, infatti, si presenta costantemente ai media in tenuta militare, dettaglio che sicuramente ha contribuito ad avvicinarlo alla popolazione ed accrescere la sua popolarità. Dall’altra, invece, l’immagine di Putin come un uomo abituato alla formalità e agli infiniti tavoli negoziali, ha risentito profondamente del contraccolpo dovuto alla guerra, diventando la personificazione delle violenze compiute dal suo stesso esercito. Un uomo non più razionale, un folle, le cui gesta vengono comparate a quelle dei dittatori più spietati, l’esatto contrario rispetto alla versione del Cremlino, ovviamente.
Tirando le fila del discorso, la guerra virtuale non viene combattuta soltanto dai governi e dalle istituzioni, ma anche dai cittadini stessi, i quali contribuiscono tramite i social, talvolta involontariamente, alla diffusione di contenuti che possono contribuire ad esacerbare le già presenti tensioni sul campo di battaglia. In questo caso, però si tratta di misinformazione. Il destinatario delle news, quindi, non è più un pubblico passivo, un consumatore dell’informazione, come in passato, bensì un creatore e diffusore di materiale a sua volta. I social media, infatti, utilizzano una struttura algoritmica nell’analizzare parole, frasi oppure hashtags, creando, poi, una lista di argomenti (non necessariamente corrispondenti al vero) in ordine di popolarità, i quali entrano nel vortice della condivisione e finiscono per essere assimilati come fatti reali.
Ecco come una foto del giornalista Bernie Gores ucciso a Kabul dai talebani sia diventata una foto di un reporter americano ucciso dai russi, come una foto del 2016 ritraente bambini ucraini di fronte a un carro armato di Kiev venga ricondivisa per sostenere l’approccio “umano” dell’esercito ucraino, oppure come un video di un’esplosione in una zona industriale di Tianjin (in Cina) diventi un bombardamento di Mosca. E ancora, ecco come un filmato ritraente le prove tecniche della Parata della Vittoria del 2020 diventi una prova inconfutabile di un bombardamento della Federazione. L’esempio più lampante, però, è proprio quello della virale copertina del Time ritraente l’immagine di Hitler sovrapposta a quella di Putin, fotomontaggio creato da un graphic designer, condiviso e spacciato per ufficiale. Concludendo è possibile affermare che la guerra dell’informazione in Ucraina venga combattuta sia a livello fisico che virtuale, manipolando le informazioni, silenziandone alcune e condividendone altre in uno scontro il cui obiettivo è quello di demonizzare l’avversario in toto (russo o ucraino che sia), talvolta non facendo i conti con il clima di ripugnanza e disprezzo che si sta diffondendo anche tra coloro che la guerra non la vivono in prima persona, ma la combattono a colpi di click, uno squarcio che sarà difficile da riparare nell’immediato post-guerra.
Vanessa Canola
[1] Andrei Soldatov and Irina Borogan, “Russia’s New Nobility: The Rise of the Security Services in Putin’s Kremlin,” Foreign Affairs 89, no. 5 (2010): 80–96.