L’ex presidente e premier russo è sempre stato considerato un “liberale”, tra i fautori di un’occidentalizzazione della Russia. Oggi però sta recitando un ruolo ben diverso, anzi del tutto inedito nella sua improvvisa durezza. Lo scopo? Probabilmente, candidarsi alla successione di Putin.
La guerra in Ucraina sta cambiando molte cose ma anche molte persone. Una delle metamorfosi più clamorose riguarda Dmitrij Medvedev, dal 2008 al 2012 presidente della Federazione Russa, dal 2008 al 2020 primo ministro e poi relegato nella carica di vice-segretario del Consiglio di Sicurezza. Titolo roboante ma quasi solo simbolico, tanto più che il segretario è un duro del putinismo come l’ex capo dell’Fsb Nikolaj Patrušev.
Per la verità in passato veniva data per inossidabile anche l’intesa tra Medvedev e Vladimir Putin. Entrambi di San Pietroburgo (ma il primo, figlio di accademici, di assai più nobili natali), entrambi cresciuti alla politica nell’ombra del sindaco Anatolij Sobčak, al quale Medvedev fece da capo della campagna elettorale e Putin da braccio destro. Arrivato al vertice (agosto 1999, primo ministro), Putin fece subito trasferire a Mosca il vecchio sodale, che fu anche il direttore della sua prima campagna presidenziale nel 2000. Nel 2005 Medvedev fu nominato vice-primo ministro e nel 2007 candidato alla presidenza da Russia Unita, con un annuncio ufficiale dello stesso Putin.
Soprattutto negli anni della presidenza, Medvedev riuscì a guadagnarsi una solida fama di liberale, almeno nel senso che in Russia si dà a questo aggettivo. Promosse una riforma dell’economia russa per renderla meno dipendente da gas e petrolio, varò una grande campagna contro la corruzione ristrutturando le forze di polizia e rendendo più severe le leggi, firmò con gli Usa il trattato New Start che nel 2010, dopo la guerra tra Russia e Georgia del 2008, voleva rappresentare il tanto atteso reset nelle relazioni tra Est e Ovest. A proposito di guerra in Georgia: con un presidente diverso da Medvedev forse sarebbe stata combattuta con diverso accanimento e furore, come le vicende dell’Ucraina potrebbero suggerire. Poi i lunghi anni al governo e infine un’emarginazione che, non essendo venuti alla luce fatti clamorosi o contrasti evidenti con il Cremlino, è forse dovuta proprio a una fama di “liberale” divenuta ingombrante in tempi di montante nazionalismo e risentimento anti occidentale.
Dopo il 2020 Medvedev è sempre stato tranquillo nel suo cantuccio, senza farsi notare. Tutto è cambiato, però, con l’invasione russa dell’Ucraina. Il liberale aperto all’Occidente è diventato un agitprop della spedizione militare, con una serie di uscite davvero notevoli. È stato il primo, per esempio, a parlare (il 26 febbraio, l’invasione è cominciata il 24) di possibile reintroduzione della pena di morte “per reati particolarmente gravi”, con un’evidente allusione allo stato di emergenza causato dalla guerra. Dopo l’esclusione della Russia dal Consiglio d’Europa ha detto che la Russia “non ha un reale bisogno di relazioni diplomatiche, è il momento di chiudere le ambasciate”. Ha ricordato, in un’intervista a Ria Novosti, che “il mondo in cui gli Usa decidevano per tutti è finito per sempre”. E via via ha alzato i toni. Quando il ministro francese dell’Economia Le Maire ha detto (1° marzo) che “l’obiettivo delle sanzioni è il crollo dell’economia russa”, Medvedev ha risposto che “le guerre economiche diventano spesso guerre vere”, come se volesse annunciare una spedizione punitiva contro la Francia. E tre giorni fa ha elencato quattro ragioni per cui la Russia potrebbe usare le bombe atomiche. Troppe per lasciarci tranquilli.
Insomma, la colomba si è fatta falco. E tiene molto a farlo sapere. Inevitabile, quindi, chiedersi il perché di tanto attivismo. E la prima spiegazione che viene alla mente è che Medvedev tenti di riposizionarsi in vista del “dopo”, quella sorta di categoria metafisica e atemporale che viene evocata ogni volta che si parla dell’eventuale uscita di scena di Vladimir Putin. Anche se la riforma costituzionale del 2020 è stata fatta proprio per consentirgli di governare a vita, Putin ha 70 anni e prima o poi dovrà lasciare. La guerra, le sanzioni, le inevitabili difficoltà per la Russia, i mugugni e le frizioni al vertice, nonché la compromissione dell’immagine internazionale, non spingono verso un prolungamento all’infinito del suo potere, semmai avvicinano il momento di un saluto alla El’cin: regolata, pacifica, con tutti gli onori e con un successore già scelto al momento del cambio.
E questo successore potrebbe appunto essere Medvedev, che ha solo 57 anni e ha già conosciuto tutti i meccanismi della gestione del potere. Tra l’altro, basta confrontarlo con gli altri ipotetici candidati per vedere che il suo “profilo”, come si dice dei giovani calciatori, ha qualcosa in più. Più di Šojgu, il ministro della Difesa ora non più in spolvero. Del premier Mišustin, il tecnocrate che in questa crisi sembra capitato lì per caso. Del ministro degli Esteri Lavrov, che ha due anni in più di Putin e ha già manifestato in passato l’intenzione di lasciare. Ci sono figure interessanti a livello regionale(si parla molto di Aleksej Djumin, governatore della regione di Tula), i quali però hanno un grosso svantaggio: sono stati finora troppo lontani dal centro.
Perché nella Russia post-sovietica una cosa è chiara: al vertice non si arriva senza l’appoggio dei siloviki(dalla parola russa sila, forza) ovvero degli ambienti dei servizi segreti e delle forze armate. Mikhail Gorbačëv arrivò in alto perché protetto da Jurij Andropov, direttore del Kgb e poi leader dell’Urss. Vladimir Putin, ex Kgb, diresse l’Fsb prima di diventare premier. Se Medvedev vuole arrivare al Cremlino per restarci, deve ottenere l’appoggio degli organi della sila. E può darsi che tutto questo fare la faccia feroce sia la sua strategia per guadagnare, in vista del metafisico “dopo”, gli appoggi che più contano. Anche perché molti non l’hanno capito, ma il “problema Russia” resterà aperto anche domani, con o senza guerra, con o senza Putin. Ma questo è già un altro discorso.
Fulvio Scaglione