Quarto lago al mondo per estensione fino alla fine degli anni Sessanta, in più di mezzo secolo il lago d’Aral si è ridotto ad un decimo della sua superficie originaria. La strategia di sviluppo sovietica per l’Asia centrale non ha usato mezzi termini, così oggi il Kazakistan e l’Uzbekistan si trovano a dover governare uno dei maggiori disastri ecologici del pianeta. Le risposte che i due Paesi hanno saputo dare all’emergenza sono opposte e i risultati concreti ricalcano appieno questa distonia.
Aralkum: un lago trasformato in deserto
L’Asia centrale vive una condizione di critica scarsità d’acqua. I due fiumi principali, il Syr Darya e l’Amu Darya, sebbene dalla portata copiosa, risultano non sufficienti a sostenere la pressione antropica e agricola senza che l’ambiente venga inesorabilmente alterato. Lo sviluppo agricolo dell’area, basato fino a pochi anni fa quasi solamente su ampie coltivazioni di cotone e cereali, ha drasticamente ridotto la portata dei due grandi fiumi centro-asiatici, nei fatti impedendo a questi di raggiungere il lago d’Aral. L’Amu Darya, in particolare, ad oggi non raggiunge l’invaso se non in annate particolarmente piovose, a causa dei continui prelievi che il Tagikistan, l’Afghanistan, l’Uzbekistan e il Turkmenistan effettuano lungo tutto il suo corso. Il Syr Darya, invece, a differenza del proprio vicino meridionale riesce ancora a fluire nel lago, sebbene la sua portata risulti drasticamente decurtata dai prelievi kirghisi, uzbechi e kazaki. Un modello di sviluppo fortemente intensivo, che non tiene in considerazione l’esauribilità della risorsa idrica e la sua importanza per l’ecosistema della regione centro-asiatica ha condotto il lago ad una rapida evaporazione, consumatasi in un arco di tempo inferiore alla vita di una persona.
Quello che ha preso il posto del lago è un deserto salato, interrotto qua e là da arbusti e cespugli spinosi. La crosta di sale, tuttavia, contiene anche sostanze tossiche utilizzate in agricoltura, come pesticidi e fertilizzanti chimici, che sono state trasportate dai fiumi e si sono sedimentate sul fondo del lago. Con l’evaporazione, oltre al danno diretto legato alla sparizione della massa d’acqua, si sono aggiunti danni indiretti come il cambiamento del clima e la riduzione delle precipitazioni, oltre all’emersione del fenomeno delle tempeste di sabbia tossica. Sebbene l’Asia centrale sia sempre stata soggetta a fenomeni di questo tipo, l’aggiunta di sale e tossine alla sabbia trasportata dal vento ha portato ad un peggioramento delle condizioni di salute per le popolazioni presenti nella regione, con l’esplosione di casi di tumori e malattie respiratorie.
Nessuna volontà di ripristino, o quasi
In questo quadro si inseriscono le misure messe in campo dai due Stati che hanno ereditato dopo il 1991 la gestione del problema. Gli anni Novanta del secolo scorso sono stati piuttosto turbolenti per gli Stati centro-asiatici, che hanno reagito in modo diverso per assestare le rispettive economie ed evitare tracolli. Il Kazakistan ha investito fortemente sulla sua esportazione di petrolio e sull’energia in generale, riducendo progressivamente la dipendenza dall’agricoltura, con ciò allentando corrispondentemente la pressione sulle risorse idriche. L’Uzbekistan, all’opposto, ha pressoché totalmente chiuso la sua economia ai contatti con il mondo esterno per venticinque anni ed ha investito sulle proprie coltivazioni di cotone nei primissimi anni della sua indipendenza, per poi ridurre progressivamente l’estensione delle terre destinate a questa pianta con una serie di riforme agrarie.
I due Paesi hanno seguito un approccio diverso alla tematica dell’evaporazione del lago d’Aral: il Kazakistan, negli anni, ha puntato a ripristinare la propria porzione lacustre tramite la riduzione dei prelievi idrici dal Syr Darya e la creazione di una diga per separare il lago del nord dal resto del bacino; l’Uzbekistan ha privilegiato l’agricoltura e si è, difatti, disinteressato del destino del lago, avviando una serie di ricerche nel sottofondo emerso alla ricerca di giacimenti di gas naturale. La volontà kazaka di salvaguardare il lago ha ridato respiro alla città portuale di Aralsk, attualmente distante venti chilometri dallo specchio d’acqua, con il progetto futuro di innalzare ulteriormente l’altezza della diga per aumentare il volume del lago in territorio kazako e avvicinare la riva alla città. Dal lato opposto del confine, la città portuale uzbeca di Mujnak ha invece visto un collasso verticale della popolazione e delle proprie attività economiche dovuto alla completa evaporazione della porzione sudorientale del lago, che resiste solo ad ovest sebbene riceva le acque dell’Amu Darya in maniera irregolare.
Un’enorme foresta per combattere la sabbia avvelenata
Ciononostante, l’Uzbekistan non ha abbandonato del tutto l’idea di tutelare l’ambiente di quello che oggi è diventato l’Aralkum. Nonostante non sia in grado di assicurare un flusso costante dell’Amu Darya nell’invaso, anche a cause dei prelievi degli altri Stati rivieraschi, l’11 marzo 2020 Taškent ha visto il lancio da parte dell’UNDP del “Green Aral Sea Initiative”. Si tratta di un progetto che prevede la piantumazione di 100 ettari di foresta nell’invaso del lago attualmente desertificato, ricorrendo a 100 mila alberi di saxaul. Una specie tipica delle zone desertiche dell’Asia centrale, adatta ai terreni salini e in grado di accumulare acqua al proprio interno, oltre a rappresentare un combustibile molto economico. È prevista la possibilità di finanziare il progetto attraverso un portale ad esso dedicato, GreenAralSea.org. Lo scopo di quest’iniziativa è ridurre l’erosione del suolo e il fenomeno delle tempeste di sabbia avvelenata, aumentando l’umidità dell’area e sottraendo anidride carbonica all’atmosfera.
Pur essendo un palliativo, in quanto si certifica l’impossibilità di ripristinare l’estensione originaria del lago d’Aral, il progetto “Green Aral Sea Initiative” permetterà di trasformare una regione molto ampia in un polmone verde, con benefici anche per le popolazioni locali. Il destino del lago appare, così, diviso in due: da una parte il Kazakistan è disposto a sacrificare una quota dell’acqua del Syr Darya per ripristinarlo; dall’altra l’Uzbekistan ha acclarato la morte del bacino pur di non rinunciare ai prelievi idrici dall’Amu Darya e ne ha previsto la sostituzione con una foresta. La diga che separa il lago kazako da quello che è oramai un deserto salato e la progressiva evaporazione degli ultimi specchi d’acqua uzbechi lasciano capire come i due Stati intendano il concetto di tutela dell’ambiente. Se Nursultan previene il danno ambientale e ripristina l’ecosistema, Taškent mitiga gli effetti negativi ma non interviene sulle cause del problema. Con due sistemi economici totalmente diversi, quest’ultimo ad oggi non ha gli strumenti e l’incisività del vicino per intervenire.