Chi l’avrebbe detto che le idee di cui si faceva tribuno Vladimir Žirinovskij, morto pochi giorni fa, avrebbero sconvolto l’Europa e il mondo, e per mano (armata) di Putin?
Sul mio canale Telegram, Lettera da Mosca, ho pubblicato pochi giorni fa un video vecchio di 31 anni. Si vede un giovane e snello Vladimir Žirinovskij, allora appena lanciato verso la stravagante vicenda nazional-populista che solo la morte ha interrotto il 6 aprile scorso, sostenere che “la Crimea, la Novorossija e tutta l’Ucraina orientale sono terre russe… Se un giorno si parlerà di Ucraina indipendente, ciò varrà solo per le sei regioni occidentali”. Si era allora in piena era El’cin, si discuteva di riforma economica, democrazia, decomunistizzazione. Žirinovskij pareva un bizzarro tribuno di scarso spessore e di ancor più scarso avvenire. Chi l’avrebbe detto che 31 anni dopo le “idee” di cui si faceva tribuno avrebbero sconvolto l’Europa e il mondo, e fatto da sfondo a una delle guerre più insensate che la storia ricordi?
Attribuire a Žirinovskij una qualche paternità del massacro cui assistiamo, in Ucraina, ormai da quasi un mese e mezzo sarebbe non tanto attribuirgli una responsabilità ma fargli troppo onore. La concezione del Russkij Mir (quel “mondo russo” comune a ucraini, bielorussi e russi che dovrebbe restare indiviso), della “Santa Russia” (Svjataja Rus’), della “Mosca terza Roma” che seicento anni fa, come scriveva il monaco Filofej di Pskov, doveva battersi contro “eretici, agareni (i discendenti di Agar, concubina di Abramo, cioè i musulmani, n.d.r.) e sodomiti” e oggi, come vuole Vladimir Putin, contro i nazisti e contro il mondo unipolare desiderato dagli Usa, è passata per ben altre teste. E anche per ben altre stanze, per esempio quel Vsemirnij Russkij Narodnij Sobor (Consiglio mondiale popolare russo) che fu fondato dall’attuale patriarca ortodosso russo Kirill quando era solo un metropolita in carriera.
Il ricordo di Žirinovskij, però, ci serve per mettere a fuoco ancora una volta una realtà che tendiamo a trascurare. Ovvero che una certa linea di pensiero, verrebbe da dire un certo sentimento, non è (solo) il prodotto di un’élite di potere a cui serve una bandiera (pseudo)ideale per coprire le proprie azioni, ma un rivolo che scorre da sempre nell’animo dei russi e che alla bisogna s’ingrossa con facilità, fino a farsi fiume. Basta osservare quanto accade con Vladimir Putin nelle rilevazioni della pubblica opinione russa.
Il Levada Center è l’istituto più affidabile e indipendente del Paese. E infatti porta da tempo il bollino di “agente straniero” che le autorità di Mosca infliggono a tutti gli organismi che ricevono anche finanziamenti dall’estero ma che, soprattutto, esibiscono una dignitosa autonomia scientifica. Non lo si può quindi sospettare di indulgenza verso il Cremlino. Ebbene, il Levada certifica che il tasso di approvazione di Putin prima della guerra era al 71%, oggi è all’83%. In perfetta analogia con quanto successe nel 2014, con la riannessione della Crimea e la rivolta filo-russa del Donbass, quando il rating del presidente raggiunse quote da record.
Certo, oggi si può nutrire qualche dubbio sulla sincerità delle risposte, considerata la pressione sui media di opposizione e sulla società in generale. Ma se anche fosse il 70%, anziché l’83%, cambierebbe molto? E poi, nel 2014 era un po’ meno difficile di oggi ma il risultato fu identico. Siamo molto attenti alle manifestazioni contro la guerra degli intellettuali cosmopoliti, della borghesia evoluta e dei giovani delle metropoli come Mosca e San Pietroburgo, soffocate dall’intervento ossessivo della polizia. Ma i video in cui la gente di località sperdute della Russia, alla grandissima parte degli occidentali ignote, esce nel fango per salutare i convogli militari e regalare dolci e bandiere ai soldati che vanno in Ucraina a uccidere e a farsi uccidere, li guarda mai nessuno?
Questo non per dire che va tutto bene. Al contrario, va tutto male. E di questo andar male, è parte cospicua l’eterna nostalgia dell’impero che ancora impedisce alla Russia di riprodursi nella forma di un moderno Stato-nazione all’europea. Ma ne è parte non proprio secondaria anche l’incapacità occidentale di analizzare la Russia per ciò che è e non per ciò che vorremmo, a volte un impero del male, a volte un buon vecchio Miša cui fare patpat sulle spalle, altre volte ancora il solito “indovinello avvolto in un mistero all’interno di un enigma” di churchilliana memoria. In realtà, qui non c’è alcun enigma ma una corposa storia abbondantemente scritta e raccontata, che però quasi rifiutiamo di riconoscere. Se così non fosse, non saremmo qui a pensare che il problema sarebbe risolto se solo una malattia, un golpe di palazzo o una rivoluzione togliesse di mezzo Putin. È lo spartito che fa la musica, non l’esecutore.
Fulvio Scaglione