La guerra scatenata dalla Russia in Ucraina ha colto di sorpresa gran parte della comunità di analisti e intelligence. Per un’ottima ragione: dopo una maxi invasione (e un maxi ritiro dalla regione di Kiev), la conquista del Donbass potrebbe rivelarsi una vittoria di Pirro. Mosca combatte, soffrendo, su tre fronti: quello militare, quello politico-economico e quello informatico.
“[…] È molto probabile che l’obiettivo della Russia in Ucraina non sia iniziare una guerra enormemente dispendiosa a livello umano e finanziario.” Così scriveva il sottoscritto lo scorso 29 gennaio, a meno di un mese dall’aggressione russa e dallo scoppio del più pericoloso conflitto europeo del Duemila. In tutta evidenza la guerra è arrivata – a prescindere dalle perifrasi (“operazione speciale”) con le quali la si scelga di definire. E in altrettanta evidenza chi scrive aveva fatto male i conti.
A poco importa essere in “ottima” compagnia – quella di buona parte delle agenzie di intelligence occidentali, esclusa quella statunitense (stavolta ingiustamente accusata di cassandrismo). I fatti sono oggettivamente inclementi: il Cremlino non ha indulto in troppi calcoli nell’attaccare un Paese grande due volte l’Italia con “appena” 150.000 uomini. La geopolitica non è una scienza. Al limite una scienza sociale, ossia una non-scienza – dal momento che non è dominata da alcun principio di razionalità. Pretendere di vaticinare il futuro delle relazioni internazionali, quindi, non è analisi ma cartomanzia. Un attacco su larga scala della Russia in Ucraina avrebbe fatto probabilmente inorridire qualsiasi intelletto dotato di raziocinio strategico. Ma le guerre non sono sempre razionali, né lo è chi le inizia.
Beninteso, non ci si riferisce qui al manipolo di yes men che, secondo la CIA, comporrebbe le stanze dei bottoni russe e che impallidirebbe al solo pensiero di contraddire Putin. Un sempre valido vademecum, specie durante le guerre, è quello di attenersi alle cose che si conoscono (quasi) per certe. Ed evidentemente in pochi hanno realmente accesso alle stanze private del Gran Palazzo del Cremlino, oppure alla cartella clinico-psichiatrica del presidente russo (mentre altrove impazzano le diagnosi di cancro, demenza, collera o semplice nostalgia imperiale).
Quello che è certo è che, appunto, l’invasione della Russia in Ucraina c’è stata. Non solo nel Donbass delle sedicenti repubbliche popolari di Doneck e Luhans’k, ma pure a Kharkiv, Kiev, Mariupol’, Odessa, Chernihiv, persino nella Leopoli mitteleuropea. Un’iperestensione che, stante i numeri della fanteria, può avere senso con una vera blitzkrieg che conquisti i palazzi di Kiev in una settimana. Due mesi dopo, non solo i russi non sono riusciti a prendere la capitale, ma hanno abbandonato le postazioni al Nord e al Centro. Obiettivo: concentrare le forze a Sud e a Est, ovvero nel Donbass.
Come su tutto il resto, anche sui motivi della ritirata delle truppe di Mosca non c’è accordo. Per i russi si è trattato di un sincero “passo concreto per la de-escalation” (lo hanno detto i negoziatori russi a Istanbul); per gli ucraini, una semplice ricalibrazione degli obiettivi nel breve periodo. Quale che sia la verità, il Cremlino ha deciso di concentrare gli sforzi sulla zona più lucrosa del Paese: il Donbass. Oltre a tutto ciò che c’è nelle vicinanze, leggasi Kharkiv, Odessa e Mariupol’. Menzione speciale per le ultime due città portuali. Mariupol’ è particolarmente strategica in quanto collante geografico tra la Crimea e il Donbass. Odessa invece è il principale sbocco di Kiev sul Mar Nero, da dove transita gran parte dell’export ucraino. Se prendere Kiev equivale ad annientare l’Ucraina, prendere Odessa equivale ad annientare la (già disastrata) economia ucraina.
Con ogni probabilità, i russi speravano che l’invasione allargasse il solco tra Europa e (Nord) America, e che la NATO fosse effettivamente in stato di “morte cerebrale”, come l’aveva laconicamente definita nel 2019 Macron. Mosca si aspettava forse una risposta occidentale equiparabile a quella che Stalin aveva incontrato nel 1939, con l’aggressione alla Finlandia. Un supporto ossia di natura esclusivamente retorica, a causa dell’angoscia di ripercussioni sul business as usual e sull’energy first. E invece il Cremlino si è ritrovato a dover fare i conti coi suoi incubi più reconditi. L’Europa si è riscoperta persino più atlantista di Washington, colpendo prima (e meglio) con le sanzioni e consacrando il 2% del PIL alle spese militari dopo anni di diatribe con Washington sul punto. E mentre la Casa Bianca ammetteva l’inverosimiglianza che l’Europa facesse a meno dell’energia russa a breve, il Parlamento europeo ha cercato di smentire lo Zio Sam chiedendo a gran voce l’embargo di gas e petrolio provenienti da Mosca.
Le tre guerre
Quella che si sta combattendo sul campo è peraltro solo una delle tre guerre della Russia in Ucraina.
Si può anzitutto distinguere una “guerra calda” (hard war), in cui il ruolo dell’Occidente era inizialmente limitato alla fornitura di armi “difensive” (tra cui sistemi Javelin e Stinger) e intelligence, ma che adesso si è esteso alla fornitura di droni e carri armati. Non quelli in dotazione alla NATO, che al soldato ucraino richiederebbero ore di addestramento. Bensì di tanks ex sovietici ancora in forza agli eserciti dei membri est-europei della NATO (Polonia, Cechia, Slovacchia, Baltici etc.). Con il propedeutico benestare del Pentagono, che per ogni mezzo sovietico inviato a Kiev invierà un più moderno carro occidentale sostitutivo all’alleato benefattore.
In corso c’è però anche un secondo conflitto, una “guerra fredda” (cold war) tra Russia e quello che per comodità verrà chiamato “Occidente”, ma che in realtà include Stati orientali come Giappone, Corea del Sud, Australia etc. – finiti nella blacklist di “Paesi ostili alla Russia” che dovranno pagare il gas in rubli. In quest’ultimo caso si tratta di una vera e propria guerra totale cui curiosamente manca proprio l’elemento principe: la hard war. Non c’è dubbio che proprio la “nuova” guerra fredda (ma c’è chi non è certo che fosse mai finita) sarà quella che lascerà i maggiori segni sul futuro delle relazioni internazionali.
Da questo punto di vista, l’aggressione russa dell’Ucraina ha sortito lo stesso effetto della Rivoluzione ottobrina di Lenin. A risentirne saranno tanto i governi quanto i cittadini e le imprese, in un più generale contesto di fine della globalizzazione come la si era conosciuta sinora. Qui c’entrano soprattutto il Covid e la crisi delle catene di approvvigionamento, ma l’Ucraina ha dato il colpo di grazia finale. Ora rimane solo da valutare se questa sia l’alba di un multilateralismo à la 1815 o piuttosto di un ritorno al bilateralismo (con Pechino e Mosca a scambiarsi i rispettivi ex ruoli).
In terza e ultima analisi, c’è anche una guerra che si muove su sentieri non convenzionali: la cyberwar. Ci si riferisce tanto alla ciberguerra in senso stretto (attacco a infrastrutture critiche online) quanto alle campagne propagandistiche. E su entrambi i fronti finora la Russia in Ucraina ne esce malamente sconfitta, nonostante la temibilità dei crackers russi e i grandi piani di un Internet sovrano e sicuro (Runet). Anonymous e propaganda ucraina, in sostanza, hanno sinora inflitto ai più noti colleghi russi un Maracanaço in salsa kievana.
E ora?
Ciascuna di queste tre guerre muove su binari paralleli. Si può vincere una guerra militarmente ma perderla mediaticamente. Così come si può vincere una guerra sul campo ma perderla in un quadro più generale, raggiungendo la proverbiale vittoria di Pirro.
Dopo un’iniziale fase di sbandamento, la Russia sta ora cercando di contrattaccare su tutti i piani: quello militare, quello delle sanzioni e quello della propaganda mediatica. Mosca infatti può pur sempre contare su un esercito datato ma enorme, oltreché dotato di forza nucleare, che renderebbe insuperabile anche un’armata Brancaleone (che le truppe russe certamente non sono). Sul lato finanziario, un’economia prevalentemente autarchica come quella di Mosca soffrirebbe enormemente, ma è piuttosto chiaro che non collasserebbe del tutto anche in caso di embargo energetico europeo. La rincorsa è infine partita anche attraverso la propaganda, sebbene spesso questa si limiti a voler “sfatare” l’opposta propaganda ucraina, oppure a fomentare il moderato anti-americanismo di alcune opinioni pubbliche europee che tifano per il quieto vivere a prescindere dalle pur legittime ragioni degli offesi.
Un conto, però, è dire che la Russia potrebbe non subire la disfatta che si augurano gli occidentali, altro è spingersi fino ad affermare che la Russia possa vincere. Anche in caso di annessione del Donbass e di sua saldatura con la Crimea, il Cremlino ne uscirebbe con le ossa spezzate. La NATO ha ritrovato unità e grande appeal (soprattutto per Finlandia, Svezia e Georgia), con le due sponde dell’Atlantico che si sono notevolmente riavvicinate. Intanto, gli ex membri est-europei del Patto di Varsavia si crogiolano della “espansione” dell’Alleanza ad est – malgrado si debba più propriamente parlare di “espansione ad Ovest” del secondo mondo.
Quanto all’Ucraina, invece, le attuali e prossime generazioni saranno verosimilmente battezzate nella russofobia post-bellica, a prescindere da cosa si deciderà formalmente sulla neutralità di Kiev. Senza infine dimenticare l’inevitabile recessione che, in Russia, amplierà il divario macroeconomico con la Cina e i timori di sparring partnership con Pechino. L’unica previsione quasi sicuramente corretta è proprio questa: che la sua guerra, Mosca, l’abbia persa all’alba dello scorso 24 febbraio.