Estonia, Lettonia e Lituania hanno deciso di non autorizzare le tradizionali celebrazioni del 9 maggio, anniversario della vittoria sovietica sulla Germania nazista nella Seconda Guerra Mondiale. Segno che le reazioni al conflitto in Ucraina si stanno allargando, fino a toccare nervi (ancora) scoperti nella memoria storica.
Il 9 maggio è celebrato anche nelle Repubbliche Baltiche dalla popolazione russa residente nei tre Stati. La popolazione “autoctona”, invece, preferisce festeggiare l’8 maggio, prendendo le distanze dalla connotazione russo-sovietica dell’evento. Lo stesso accade in Polonia, dove dal 2015 l’8 maggio si festeggia il “Giorno Nazionale della Vittoria”, e in Ucraina, dove, sempre dal 2015, il 9 maggio si celebra la “Giornata della memoria” (mentre il giorno precedente la “Giornata della Vittoria Ucraina sul nazismo”). Sottigliezze, ma solo all’apparenza.
Spazi pubblici negati
Quest’anno, per la prima volta, non sarà autorizzato nessun evento per il 9 maggio negli Stati Baltici, e l’atmosfera si è fatta piuttosto pesante. L’ex-sindaco di Riga si è spinto oltre i divieti formali, dichiarando che i russi residenti in Lettonia dovrebbero cogliere l’occasione per riflettere non solo sul “vero” significato del 9 maggio (evidentemente alludendo alla propaganda putiniana), ma anche per “riconsiderare molte altre cose: è improbabile che, una volta conclusa la guerra, ritorneremo mai a festeggiare il 9 maggio come prima. Le persone continueranno in ogni caso ad avere l’opportunità di portare fiori al cimitero, anche perché ulteriori restrizioni potrebbero precipitare le cose”.
Il Parlamento lettone ha approvato una legge in cui si dichiara il 9 maggio “Giorno di commemorazione per le vittime della guerra in Ucraina”, allo scopo di condannare l’aggressione russa ed esprimere solidarietà al popolo ucraino nella lotta per la sua sovranità, indipendenza ed integrità territoriale. La legge perderà valore l’11 maggio. Inoltre, l’8 e 9 maggio, sui principali monumenti di Riga, tra i quali il parlamento, il Castello e gli edifici dei ministeri, verrà issata la bandiera ucraina accanto a quella lettone.
Non è tutto. L’11 aprile scorso il sindaco di Riga ha fatto sapere che il monumento al Parco della Vittoria (quello con più carica simbolica tra quelli dedicati all’Armata Rossa) è stato ufficialmente dichiarato “pericoloso”, e verrà quindi recintato, impedendone l’accesso. Il Ministro della Giustizia ha rincarato la dose, presentando in Parlamento una proposta che illustrava quattro diverse opzioni per rimuoverlo. Il Governo non si è ancora espresso a riguardo, segno che la questione è complessa e controversa, certo è che nel Paese è tuttora in vigore un emendamento, datato 1994, in cui la neonata Federazione Russa richiedeva al Paese di mantenere i monumenti appartenenti al passato sovietico dislocati sul territorio, e di occuparsi della loro buona conservazione (lo stesso vale a parti invertite per i monumenti dedicati ai cittadini lettoni in Russia). Attualmente, in Lettonia si trovano ancora circa un centinaio di essi.
Diversa è la situazione in Lituania, dove non sussistono vincoli legali con la Russia per la conservazione delle opere commemorative sovietiche, e si può quindi parlare apertamente di rimozione. A Kaunas stanno già preparando la lista delle statue da smantellare, ma l’elenco è relativamente corto, perché sin dall’indipendenza il Paese si è disfatto dei monumenti più controversi. È comunque probabile che, se l’iniziativa sarà effettivamente messa in pratica, non saranno rimossi i monumenti installati nei cimiteri. Intanto, c’è anche chi propone di rinominare le strade e gli edifici pubblici dedicati a russi. Il ministro della Cultura si è augurato di vedere questi spunti al più presto raccolti in una proposta di legge sulla “desovietizzazione”, che imponga alle varie municipalità di fare i conti con l’eredità sovietica ed agire di conseguenza. Spesso però questi monumenti sono tutelati da convenzioni internazionali o riconosciuti come patrimonio culturale, specie se situati in luoghi sacri o religiosi.
Anche Vilnius, come Riga, rifiuterà la concessione di permessi per il Giorno della Vittoria, con le stesse motivazioni. Il sindaco della capitale è stato chiaro, “se qualcuno vuole celebrare la fine della seconda guerra mondiale, può farlo l’8 maggio”, ha dichiarato in merito. Il Dipartimento nazionale di sicurezza (VSD) ha parlato di pericolo di possibili atti provocatori o violenti, anche se nessuna autorizzazione ufficiale per manifestazioni o cortei è stata richiesta, per ora.
Più tiepido il dibattito in Estonia. Il ministro dell’Interno ha lanciato un monito, affermando che “chiunque prenderà parte a commemorazioni per il 9 maggio potrebbe dare l’impressione di sostenere l’invasione russa in Ucraina, specialmente esibendo simboli come il nastro di San Giorgio o la Z”. L’ala conservatrice del parlamento estone vorrebbe dare segnali più incisivi, e ha chiesto di proibire qualsiasi manifestazione collegata alla Russia o all’Unione Sovietica sia il Giorno della Vittoria che negli altri periodi dell’anno. Non solo: è stato proposto anche di punire con l’espulsione immediata dal Paese, o in alternativa la revoca del permesso di soggiorno, di lavoro, o della cittadinanza estone coloro che esprimano supporto all’aggressione russa o esibisca bandiere russe o simboli ad essa collegati.
Un messaggio incisivo
Chi sono i destinatari di questi provvedimenti? L’odierna presenza di abitanti di etnia russa corrisponde a circa il 24,6% della popolazione in Estonia, al 25,2% in Lettonia e al 5,8% in Lituania. Non pochi di questi sono senza cittadinanza, in quanto Estonia e Lettonia dopo l’indipendenza hanno introdotto leggi piuttosto selettive, che hanno di fatto lasciato uno strascico significativo di “non cittadini” e per le quali sono state indagate anche dalla Commissione Europea con l’accusa di comportamenti discriminatori nei confronti delle minoranze.
Riavvolgendo la storia delle tre Repubbliche, è impossibile pensare che le restrizioni siano semplicemente un atto di solidarietà nei confronti di Kiev. Non si tratta solo della “questione ucraina”, è una questione più personale, una questione endogena, che ha radici nel Baltico da più di un secolo. Il sostegno all’Ucraina “silenziando” il 9 maggio diventa un pretesto per debellare una parte di ciò che di russo è rimasto nei tre Paesi, e che non si è mai pienamente integrato nell’identità baltica. Non basta la convivenza sullo stesso territorio, per dirsi un popolo, e qui lo sanno meglio che altrove.
Sarebbe riduttivo leggere questi avvenimenti solo in chiave contemporanea, senza prenderne in considerazione la genesi, o i momenti salienti nelle reazioni tra Estonia, Lettonia, Lituania e l’URSS (divenuta poi Federazione Russa), come il Patto Molotov-Ribbentrop ed i suoi strascichi, o la Catena Baltica, o il travagliato processo per l’indipendenza più di trent’anni fa. È giusto chiedersi quali nervi a Tallinn, Riga e Vilnius stiano andando a scoprire e a sollecitare con questa mossa, e che cosa davvero implichi, al di là dei semplici divieti in vigore per 24 ore, ridiscutere la storia e la memoria.