L’importanza di una battaglia che – oltre a cambiare gli equilibri in Estremo Oriente – determinò probabilmente le sorti del futuro confronto tra Germania e Unione Sovietica. E dunque anche dell’Europa.
In seguito alla schiacciante vittoria ottenuta sull’Impero Russo nella guerra del 1904-05, suggellata dalla vittoria di Tsushima sulla flotta del Baltico, il Giappone confermò la propria postura imperiale entrando nel novero delle grandi potenze. Accantonato il pericolo russo, per Tokyo occorreva consolidare le conquiste acquisite nel corso della prima guerra sino-giapponese e accedere a territori strategicamente vitali per le loro risorse naturali – a loro volta necessarie per un’economia in ascesa e per nutrire l’apparato militare di un impero in poderosa fase espansiva. Nel 1918, in seguito alla disintegrazione dell’impero zarista, l’esercito giapponese occupò le province dell’estremo oriente russo e parti della Siberia. Il consolidamento del regime comunista, tuttavia, costrinse Tokyo a ritirarsi da tali territori già nel 1922.
Negli anni ’30, il Giappone imperiale poteva accedere direttamente ad uno scarno carnet di risorse naturali, compensando con onerose importazioni. Il Paese necessitava infatti di materie prime per esportare prodotti finiti. Per consolidare la produzione era necessario un approvvigionamento costante e controllare i mercati dove esportare. Presa la decisione di risolvere la questione con metodi militaristi, Tokyo sviluppò un programma di espansione coloniale che coinvolgeva l’Asia orientale e la Cina. L’enorme e debilitato “Impero di mezzo” poteva assorbire l’export giapponese, e assieme al sud-est asiatico poteva inoltre dar sfogo al surplus demografico dell’impero. Per attuare questa politica i giapponesi intrapresero l’occupazione della Manciuria nel 1932 e l’istituzione dello stato fantoccio di Manchukuo. Poco prima della Seconda guerra mondiale, i giapponesi iniziarono a popolare e sviluppare la regione, considerata una roccaforte imprescindibile dalla quale iniziare l’invasione della Cina.
Di fronte all’assertività giapponese in Asia, l’Unione Sovietica guardava con preoccupazione alla retrovia siberiana. Archiviata l’epoca zarista e il brutale conflitto civile l’Unione Sovietica, impegnata in una fase di ristrutturazione e consolidamento sociale ed economico, inizialmente pose scarso interesse all’aggressività giapponese salvo poi considerare con turbamento l’espansione di Tokyo nella strategicamente rilevante Manciuria. Particolarmente preoccupante per l’URSS era non solo la postura militarista e colonialista nipponica (il “fascismo giapponese”) ma anche l’indebolimento di una Cina incapace di sfuggire ad un conflitto intestino in cui i giapponesi avevano mostrato grande maestria nel colmare le lacune di sovranità. Chiave del controllo strategico della Siberia, per coprire il fronte orientale dagli Urali a Vladivostok, era la ferrovia Transiberiana: per garantirne la protezione i sovietici avevano sostenuto la creazione della Repubblica popolare mongola nella Mongolia esterna. Uno Stato fantoccio che per decenni rimase un inossidabile alleato sovietico anche in seguito all’ascesa della Cina comunista.
Tra la repubblica popolare mongola e il Manchukuo giapponese la disputa per il confine, in un territorio vastissimo e sottopopolato, si accese subito stante anche la presenza di nutriti contingenti di nomadi poco propensi ad interrompere il proprio tradizionale stile di vita per rispettare artificiali confini nazionali. I giapponesi sostenevano che il confine tra Manchukuo e Mongolia fosse il fiume Khalkhin Gol, che sfocia nel lago Buir. Al contrario, i mongoli e i loro alleati sovietici sostenevano che il confine corresse per circa 16 chilometri a est del fiume, presso il villaggio di Nomonhan. Ben presto, la Mongolia avanzò delle rivendicazioni territoriali, chiedendo che il confine fosse spostato di 25 chilometri. Un conflitto armato era dunque inevitabile. Non potendo resistere da sola all’esercito regolare giapponese, Ulan Bator si rivolse a Mosca. Nel 1936, l’URSS e la Mongolia firmarono un protocollo di mutua assistenza, in base al quale unità dell’Armata Rossa vennero schierate sul territorio mongolo nelle aree al confine con la Cina. Le parti ponevano scarso interesse nell’attendere la risoluzione della controversia attraverso i bizantinismi della diplomazia stimolando una corsa alla mobilitazione e innalzando la tensione in maniera preoccupante.
Se l’Unione Sovietica di Stalin considerava la regione come un teatro geopolitico di secondaria importanza, stanti gli imperativi europei ove crescevano i timori per i proclami espansionistici della Germania nazista, diametralmente opposta era la visione di un Giappone galvanizzato dall’irresistibile sequela di conquiste, oltreché in qualche modo obbligato all’espansione per le già citate carenze di approvvigionamento. Radiografando gli apparati politici e militari del Sol Levante, in quel frangente storico emergono due correnti contrapposte impegnate in una lotta serrata al vertice al fine di influenzare l’imperatore “dio” Hirohito. La “dottrina dell’espansione a Sud” (南進論 Nanshin-ron), promossa dall’élite economica zaibatsu, premeva per una vigorosa espansione nel Sud-Est asiatico e nelle isole del Pacifico, avocando il valore potenziale dell’espansione territoriale negli imperi coloniali europei. Radicalmente contrapposta la “dottrina dell’espansione a Nord” (北進論 Hokushin-ron) che propugnava una spinta imperialista attraverso la Siberia. Una volta interrotto il collegamento infrastrutturale transiberiano l’impero giapponese avrebbe dovuto impadronirsi della Mongolia, delle province marittime sovietiche e di parti della Siberia.
Nel 1937 i giapponesi invasero la Cina avanzando in maniera fulminea e inizialmente senza opposizione. Questo, insieme al Patto Anti-Comintern firmato nel 1936 tra Germania e Giappone, allarmò l’Unione Sovietica spingendo il Cremlino a finanziare economicamente e militarmente i nazionalisti cinesi del Kuomintang, per drenare l’avanzata giapponese. Per via della crescente mobilitazione imperiale crebbe anche la spinta imperialista nel Manchukuo così come le velleità degli ambiziosi militari stanziati in loco. Gli incidenti lungo il poroso confine tra Manchukuo e l’Unione Sovietica si susseguirono e aggravarono. Nell’estate del 1938 una scaramuccia degenerò in conflitto nei pressi del lago Khasan, a sud-ovest di Vladivostok, all’intersezione dei confini tra Manchukuo, Corea e URSS.
L’11 maggio 1939 un’unità di cavalleria mongola di circa 70-90 uomini svernò nell’area contesa in cerca di pascolo per i cavalli. Intercettati da un’unità della cavalleria del Manchukuo, i mongoli vennero respinti attraverso il fiume Khalkhin Gol. Due giorni dopo un contingente più numeroso di cavalleria mongola tornò sul teatro dello scontro scacciando i militari dello Stato fantoccio giapponese. Nonostante l’avvertimento del governo sovietico, in base al quale l’URSS avrebbe difeso la sovranità della repubblica mongola ad ogni costo, i giapponesi avevano già deciso di estendere militarmente l’escalation. Le truppe imperiali disponevano di 75.000 uomini attraverso lo schieramento della 23ª divisione di fanteria, due reggimenti della 7ª divisione di fanteria, una brigata di cavalleria leggera e due reggimenti di carri armati, mentre le forze sovietiche schieravano circa 50.000 soldati, supportati da 498 carri armati e veicoli corazzati e 581 bombardieri.
L’esercito dell’imperatore attraversò il fiume Khalkhin Gol e invase il territorio mongolo infliggendo pesanti perdite alle truppe sovietiche e mongole e occupando la regione di confine. Ad agosto, mentre Stalin cercava segretamente un’alleanza con Hitler, il comandante in capo dell’Armata Rossa nella regione, Georgij Konstantinovič Žukov, ottenne rinforzi e consolidò la sua posizione. Il 20 agosto 1939, dopo la firma del Patto Molotov Ribbentrop, Žukov lanciò un contrattacco sulle posizioni giapponesi. Il futuro maresciallo dell’Armata Rossa svelò le tattiche che avrebbe poi impiegato a Stalingrado, Kursk e altrove: un assalto combinato con fanteria e artiglieria sul fronte centrale dell’esercito nemico mentre le formazioni corazzate avvolgevano i suoi fianchi, per circondarlo e alla fine annientarlo in una battaglia decisiva. La 6ª armata giapponese venne infatti interamente distrutta. I sovietici lamentarono 7.974 morti e 15.251 feriti. Più incerte le perdite giapponesi. Secondo le fonti nipponiche i caduti furono 8.440 e i feriti 8.766, mentre le stime sovietiche parlano di 60.000 tra morti e feriti, e 3.000 prigionieri. In seguito alla disfatta il comando giapponese chiese la cessazione delle ostilità, ottenuta il 16 settembre 1939.
La vittoria sovietica in quel preciso frangente storico rappresentò un punto di svolta nelle direttive politiche giapponesi cosi come nelle priorità sovietiche. La sconfitta giapponese sul fronte settentrionale provocò le dimissioni del governo di Tokyo. Il nuovo esecutivo rafforzò la convergenza con la Germania in fase di espansione nel continente. L’URSS e il Giappone firmarono un accordo di armistizio, sulla base del quale il Patto di neutralità sovietico-giapponese fu concluso nell’aprile 1941. Firmando il patto, il Giappone acquisì la garanzia che Stalin non avrebbe minacciato il Manchukuo, liberando forze necessarie per perseguire la strategia della strada meridionale. Quando le forze tedesche invasero l’Unione Sovietica il 22 giugno 1941, Tokyo decise di non rinnovare le ostilità con l’URSS, nonostante la sollecitazione di Berlino. Dopo Khalkhin Gol, all’interno dell’alto comando giapponese la “dottrina dell’espansione a Sud” ebbe quindi ragione sugli screditati competitori scatenando un offensiva lungo la “Sfera di co-prosperità della Grande Asia orientale” nel sud-est asiatico e isole del Pacifico.
La decisione del Giappone di non invadere l’Unione Sovietica permise a Stalin di trasferire nel carnaio del fronte occidentale ben 18 divisioni, 1.700 carri armati e 1.500 aerei, principalmente composte da uomini temprati nei continui scontri di confine con i giapponesi e veterani della battaglia di Khalkhin Gol. Le divisioni siberiane si rivelarono risolutive in occasione della spinta nazista verso Mosca nel dicembre 1941, ove furono in grado di fermare e ricusare l’avanzata tedesca (fino a poco prima apparentemente inarrestabile) e dando vita ad un contrattacco che salvò la capitale e forse l’Unione Sovietica stessa. Se non si fosse arrivati allo scontro decisivo a Khalkhin Gol il Giappone, continuamente a corto di risorse per nutrire la macchina bellica, avrebbe potuto reputare conveniente invadere l’Unione Sovietica indebolita dalla Blitzkrieg nazista. È improbabile che, dati alla mano, l’Unione Sovietica avrebbe potuto resistere a una guerra su due fronti. Bisogna però anche considerare che la vittoria di Khalkhin Gol, ampiamente merito della perizia di Žukov, inorgoglì l’Armata Rossa accrescendo quell’ottimismo che i comandi sovietici pagheranno a caro prezzo di fronte alla macchina bellica nazista.
La battaglia di Khalkhin Gol resta tuttora argomento discusso tra gli storici russi, giapponesi e mongoli. Un dibattito che, appiattitosi durante la Guerra fredda, è ritornato in auge negli ultimi anni, e in particolar modo dal punto di vista russo. Mosca è infatti impegnata in un tentativo di rilettura (e talvolta di revisione) della sua storia, reinterpretando gli eventi di epoca imperiale e sovietica in un’ottica di pedagogia della cittadinanza. La responsabilità del conflitto viene oggi scaricata interamente su Tokyo magnificando, inoltre, il contributo di Stalin nella preservazione dei confini di fronte al “fascismo giapponese”. L’ex presidente Dmitrij Medvedev, in occasione del 70° anniversario della battaglia, dichiarò a Ulan Bator di “non tollerare le invenzioni che cambiano l’essenza di questa vittoria”. La battaglia rappresenta oggi l’ennesimo fronte di una manipolazione della memoria storica in un Paese che scivola sempre più su una china revisionista e autoritaria.
Marco Limburgo
Bibliografia
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Toland, John (1970), L’eclisse del Sol Levante
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Stuart Douglas Goldman, Nomonhan, 1939 (2012) The Red Army’s Victory That Shaped World War II